La sfida dell’allargamento UE ai Balcani occidentali: il necessario ritorno della politica

Town of Mostar and Stari Most at sunset, Bosnia and Hercegovina

I più di sei anni passati dall’ultimo allargamento dell’Unione Europea (la Croazia divenne il 28° Stato membro nel luglio del 2013) rappresentano probabilmente il migliore indicatore di quella enlargement fatigue che viene ormai assunta nelle capitali europee come misura di qualsiasi nuova espansione dei confini comunitari verso i Balcani occidentali – e che ha probabilmente spinto il presidente della Commissione uscente Juncker, al momento della sua nomina, a rinominare la delega all’Allargamento definendola ‘Negoziati per l’allargamento’, ed affermando come il suo mandato non avrebbe visto alcun ingresso di nuovi paesi.

La ‘crisi d’identità’ che l’Unione ha vissuto negli ultimi anni, tra i crolli nell’Eurozona, Brexit e i fenomeni migratori, ha sicuramente relegato l’allargamento al fondo della lista di priorità per Bruxelles, rafforzando l’idea che si tratti di un processo meramente tecnocratico da affidare a ‘pesi medi’ all’interno della Commissione, con l’austriaco Hahn prima e l’appena nominato ambasciatore ungherese presso l’UE Várhelyi oggi. Al contrario, l’allargamento ha una predominante dimensione politica di cui tutti gli attori coinvolti dal lato comunitario – Commissione, SEAE, Parlamento e Stati Membri – devono essere più consapevoli. 

Nella lunga marcia verso Bruxelles, i sei paesi del Balcani occidentali procedono in ordine sparso: i frontrunners, Montenegro e Serbia, hanno già aperto, rispettivamente, 32 e 16 capitoli sui 35 in cui è suddiviso l’acquis communautaire (e chiudendone, nell’ordine, 3 e 2); in posizione mediana troviamo Macedonia del Nord e Albania, candidati dal 2005 e dal 2014 e a cui entro ottobre il Consiglio UE dovrebbe concedere (quasi sicuramente alla prima, meno alla seconda) l’apertura dei negoziati di adesione; fanalino di coda, Bosnia-Erzegovina e Kosovo, con la prima che non ha ancora ricevuto lo status di candidato e il secondo legato alla UE da un semplice Accordo di Stabilizzazione e Associazione, in attesa di una rivitalizzazione del processo di normalizzazione dei rapporti con Belgrado.

In tutti i paesi sopramenzionati, l’aspirazione a far parte dell’Unione Europea rappresenta il minimo comune denominatore in società spesso politicamente molto polarizzate. Ma in un’area dove la percezione dell’eredità dei conflitti degli anni ’90 e delle crisi successive è spesso più forte della loro reale impronta, la ricerca della stabilità attraverso governi forti ha spesso supplito, anche agli occhi di Bruxelles e di vari Stati membri, alla mancanza di riforme e di un concreto avanzamento verso l’adesione. In altre parole, l’emergere di leader forti e accentratori (come in Serbia, Montenegro, Albania e, fino a poco tempo fa, Macedonia del Nord), con scarso rispetto per le opposizioni e la libertà di stampa, spesso accompagnati da una concezione quasi patrimonialista dello Stato e della magistratura, è stato a tratti preferito ad un reale processo democratico e ad iniziative politiche coraggiose. Per molti, quindi, la ‘stabilocrazie’ balcaniche hanno rappresentato la ricetta per l’uscita della regione da un limbo che, invece, non ha fatto altro che prolungarsi, allontanando le prospettive di adesione, frustrando le classi medie e i giovani e favorendo soltanto gli uomini forti al potere e le oligarchie che ad essi fanno riferimento. Caso emblematico di questo approccio – errato – alla regione è forse la Serbia, dove le tendenze autoritarie del presidente Vucic vengono tollerate in quanto unico leader con abbastanza capitale politico per potere, ad un certo punto, far accettare a tutte le fasce della popolazione serba la normalizzazione delle relazioni col Kosovo.

L’emersione delle ‘stabilocrazie’ ha quindi costituito l’altra faccia della mancanza di ‘politica’ da parte di Bruxelles nel gestire il processo di adesione dei Balcani occidentali all’Unione, una mossa che ha contribuito ad opacizzare l’appeal del progetto comunitario in quel paesi facendo percepire l’UE come un progetto a favore del mantenimento di un establishment cleptocratico e soffocante, senza che problemi di importanza capitale, come l’emigrazione giovanile di massa, venissero affrontati. È stato quindi facile per vari pesi massimi globali reinserirsi nel gioco balcanico, approfittando del vuoto di politica che l’Unione fatica a riempire: gli ultimi anni hanno visto un susseguirsi di lobbying politica ed economica da parte di attori che possono contare su varie leve, come il panslavismo ortodosso usato dalla Russia verso Serbia, Montenegro,  Macedonia del Nord e (in parte) Bosnia come contrappeso alle sirene della NATO, o il richiamo alla tradizione ottomana e all’Islam sfruttato dalla Turchia verso Albania, Kosovo e (anche stavolta, in parte) Bosnia. Oggi anche la Cina è ormai partner di primo piano per i paesi dell’area, pienamente inseriti nella Belt and Road Initiative e potenziali future vittime delle debt traps che Pechino semina all’interno degli imponenti progetti infrastrutturali che promuove, finanzia e realizza in tutto il mondo. Da ultimi, anche gli Stati Uniti sono tornati prepotentemente sulla scena, proprio a fronte dello stallo nel cammino europeo della regione, con l’amministrazione Trump che ha nominato nel giro di pochi mesi due rappresentanti speciali – uno per i Balcani occidentali, l’altro per i negoziati tra Serbia e Kosovo – instradando così due concetti rischiosi per la zona e antitetici ai messaggi di Bruxelles: che l’integrazione nella NATO ha più importanza di quella nella UE (idea che Washington cerca di far passare specie in Bosnia) e che lo scambio di territori possa costituire una modalità di risoluzione della controversia tra Belgrado e Pristina.

In questo contesto, le sfide per l’Unione Europea sono immense: si tratta di recuperare il terreno perduto in questi anni e, allo stesso tempo, trovare ricette che rimettano in moto – a Bruxelles, tra gli Stati membri ma soprattutto nelle capitali balcaniche – il processo di allargamento. La soluzione passa per la politica, con il coinvolgimento di tutti gli attori comunitari, e iniziative coraggiose che non guardino solo all’establishment e necessariamente al mantenimento delle stabilocrazie. Così, la creazione di rapporti forti e strutturati, sempre nel rispetto dei ruoli, con le forze di opposizione e la società civile (sfruttando ad esempio le potenzialità del Parlamento Europeo), può smuovere le acque dei pantani dei palazzi del potere a Belgrado, Podgorica, Tirana e Sarajevo, tenendo a mente un esempio di successo come quello della Macedonia del Nord, che ha dimostrato come scelte coraggiose possano far recuperare decenni di immobilismo. Durante la sua audizione alla Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo, Josep Borrell ha dichiarato di voler effettuare la sua prima visita come nuovo Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza in Kosovo: un segnale importante – soprattutto se lanciato da un ex ministro degli esteri di un paese che non riconosce ancora l’ex provincia serba – che si spera possa aprire a un re-engagement politico dell’Unione Europea nei Balcani occidentali.

Dario D’Urso è consigliere politico del Rappresentante Speciale UE in Bosnia-Hrzegovina. Le opinioni espresse in questo articolo sono personali.

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