Sinistra e futuro: tre cose da sapere prima di ripartire

Di Eugenio Dacrema

Come da copione. Mentre altrove le cose accadevano, dalle nostre parti, quelle dei perdenti, abbiamo passato le ultime settimane a farci le solite domande, analizzare come sempre l’ennesima delle nostre tante sconfitte e, ovviamente, a darci a vicenda le colpe. Le teorie sulla sconfitta che circolano nelle discussioni e sui post facebook variano parecchio, ma si rifanno grosso modo a due tronconi principali: per coloro più a sinistra del PD, quest’ultimo ha perso perché ha smarrito la sua vocazione ideale, l’ha tradita, e additano personaggi come Renzi o Minniti come i principali responsabili. Il secondo troncone va di pari passo col primo, anche se spesso comprende coloro che cercano di spiegare la sconfitta dalla prospettiva più populista: il PD, e la sinistra in generale, hanno perso il contatto con la gente. Abbiamo smesso di “ascoltare la gente” e per questo siamo incapaci di costituire una alternativa vincente.

Magari fosse così semplice. La prima tesi è stata smentita il 4 marzo, con una formidabile prova empirica degna della migliore tradizione degli esperimenti sociali. Chi dopo aver passato anni a spiegare che il PD a guida Renzi con le sue svolte “neoliberiste”, “neo-blairiane” era destinato al fallimento in quanto aveva perso la capacità di interpretare le forti istanze sociali della sinistra ha avuto l’opportunità di dimostrare la sua tesi alle ultime elezioni. Una parte consistente di ex-PD, insieme ad altre anime politiche alla sua sinistra, si sono unite per offrire finalmente una vera alternativa politica a tali istanze, secondo loro estremamente vive quanto inespresse. Han preso il 3%. Certo, la prima parte della loro tesi si è dimostrata assolutamente esatta, il PD di Renzi ha effettivamente fallito, ma la seconda parte no. Il PD di Renzi, sembra suggerire l’esperimento di LeU, non ha fallito perché non ha saputo dare voce alle istanze di sinistra presenti nella società. Perché, semplicemente, alla prova empirica queste istanze sembrano non esistere quasi più.

E da questo ragionamento emerge lampante anche tutta la limitatezza della tesi secondo cui il PD è diventato ”incapace di ascoltare la gente”. Come se quando è passata la riforma delle pensioni qualcuno pensasse che sarebbe stata una mossa popolare. O come se nessuno del partito fosse in grado di capire che riforme e cambiamenti comportano shock cognitivi e sforzi di adattamento. No, il punto non è che siamo stati sorpresi dal fatto che la gente non ha saltato di gioia. Il punto è che non si è stati in grado di spiegare perché le alternative erano assai peggiori. Chi pensa seriamente che il malcontento per il PD sia un mistero incomprensibile parte da un assunto abbastanza semplicistico secondo cui 18% di elettori che lo votano sono tutti in qualche modo parte dell’establishment, o di èlite economiche e culturali chiuse nella loro bolla e incapaci di capire cosa succede fuori. Per carità, che tra questo genere di ambienti ci sia una prevalenza di elettori del PD sarà pur vero. Ma altra cosa è pensare che tra gli elettori democratici non ci siano anche centinaia di migliaia di persone normali che vivono e lavorano tra altre persone normali. La maggior parte degli elettori sa benissimo cosa pensa il resto del paese. Lo “ascoltano”. E poi si rendono conto che, semplicemente, la maggior parte della gente non vuole quel che vogliono loro. Se la maggior parte del paese vuole tornare a spesa pubblica incontrollata e chiudere le frontiere il nostro problema non è che non siamo “ascoltatori della gente”. Il nostro problema è ben più grande ed epocale: non abbiamo idea di come convincerli del contrario.

I motivi sono molteplici. C’è una oggettiva incapacità comunicativa, soprattutto tra molti esponenti della leadership sia nazionale sia locale. Ma c’è soprattutto la difficoltà di far passare un messaggio complesso e progressista in tempi di gravi difficoltà socioeconomiche, causate sa sommovimenti geopolitici che vanno ben oltre una architettura europea difettosa e i guai di un sistema finanziario poco regolato. In fondo, il lavoro dei nostri avversari populisti è semplice: prendi le reazioni istintive tipiche delle persone che hanno paura e legittimale. Ovviamente, quelle reazioni vanno quasi sempre a destra. Mesi fa analizzammo alcune delle caratteristiche più esplicite del populismo moderno. A quell’analisi potremmo aggiungere anche un altro elemento: i populisti son tali proprio perché non inventano nulla e non convincono di nulla che sia nuovo. Come iene della politica prendono quello che già c’è e ne fanno cibo per la propria retorica.

La politica per chi non si arrende allo sciacallaggio della paura è un mestiere estremamente più complesso: calmare, spiegare che un mondo sempre più interconnesso e complesso ha bisogno di soluzioni altrettanto complesse, e far comprendere che in una tale situazione è indispensabile accettare che le migliori soluzioni non possono venire da cambiamenti repentini e salvifici nel breve termine, ma solo da cambiamenti spesso dolorosi e incrementali i cui frutti si vedranno nel lungo periodo. Facile no? Nessuna sorpresa che abbiamo fallito, e per spiegarcelo non c’è nessun bisogno di ricorrere a teorie su mancanza di ascolto e istanze tradite. Viene anzi quasi da chiedersi come abbiamo seriamente pensato di farcela. E, soprattutto, come crediamo ancora di potercela fare.

A metterla così viene effettivamente voglia di andare sul Sacro Blog, iscriversi a un meet-up e iniziare a credere nelle scie chimiche. Ma se ancora non siamo pronti a cedere alla disarmante semplicità del grillismo, alla rabbia del leghismo militante e al fascino misterioso della condensa dei jet, beh.. bisogna accettare queste tre terrificanti realtà: primo, che l’unica alternativa per tornare a vincere è riuscire a trovare un modo per far diventare soluzioni che richiedono tempo, complessità e sacrifici improvvisamente popolari. Secondo, che, prima ancora di farle accettare, queste soluzioni dobbiamo averle, e dobbiamo averle chiare e quanto più possibile condivise. Terzo – e questa è la realtà più terrificante e allo stesso tempo meno sorprendente – nessuno al momento sembra avere la più pallida idea di come riuscirci. Non chi critica il PD da sinistra, non chi lo critica da destra, non i nostri compari social-liberali europei che, quando non registrano disastri elettorali simili ai nostri (vedi l’SPD tedesco), conquistano voti con atteggiamenti ambigui sull’Europa e sul ritorno ai bei tempi andati (vedi il Labour di Corbyn).

Sconfortante, certo. La traversata del deserto si preannuncia lunga e la probabilità di fallimento altissima. Ma riconoscerlo è il primo passo per avere una qualunque speranza di vederne la fine.

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