Di Anna Zafesova
Come in tanti altri settori del dibattito politico, parlare di Russia oggi significa in buona parte sfatare dei miti mediatici. L’ultimo, in ordine di tempo, è quello che vede Mosca come un’alternativa di riferimento in caso di una rottura finanziaria e istituzionale con Bruxelles, mito che si è rivelato tale già all’epoca della crisi greca, ma che nonostante questo ritorna in varie forme a riproporre la Russia di Vladimir Putin come un modello alternativo al “fallimento europeo”: un Paese ricco, un Paese ben governato, un Paese che si afferma sulla scena internazionale a scapito degli attori occidentali, un Paese che combatte l’islamismo, e che influenza anche l’esito delle elezioni americane ed europee. Uscendo da una retorica da film di supereroi e rientrando sul terreno di un’analisi seria della politica internazionale, si ottiene semmai la visione opposta, di un Paese in seria difficoltà, che sta andando incontro a un’inevitabile resa dei conti dalle tempistiche e dai risultati per ora poco prevedibili.
La situazione socioeconomica
Le notizie che arrivano dalla Russia nelle ultime settimane segnalano una situazione di notevole tensione. Il rublo è tornato a perdere rispetto al dollaro e all’euro, entrando nella top 5 delle valute più deboli del mondo, e a differenza di altri momenti simili, perfino il ministero dell’Economia russo non manifesta un eccessivo ottimismo, avendo pubblicato una stima che non prevede il recupero della moneta nazionale nei prossimi anni, affiancato a una previsione del ritorno dei prezzo del petrolio a circa 50$ a barile, un numero assolutamente insufficiente a finanziare le ambizioni politiche e militari (all’epoca dell’annessione della Crimea era intorno ai 110$). Il drastico aumento dell’età pensionistica – da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 anni per le donne – ha prodotto uno scontento estremamente diffuso: secondo vari sondaggi, l’80-93% dei russi non ha gradito la riforma, e la popolarità di Vladimir Putin è scesa di 15 punti in un solo mese (restando comunque intorno al 60%), mentre l’approvazione già scarsa dell’operato degli altri rami del potere (governo, parlamento, amministrazioni locali) è scesa a livelli allarmanti. La fuga di capitali, secondo la Banca Centrale russa, è più che raddoppiata (da 8,7 miliardi di dollari nei primi sette mesi del 2017 a 21,5 miliardi nel periodo corrispettivo del 2018), e a fine agosto Mosca non è riuscita a collocare sul mercato internazionale una nuova partita di titoli di Stato, per mancanza di acquirenti.
La situazione internazionale
Nemmeno gli esperti russi nascondono ormai che la fragilità economica, e le aspettative negative degli investitori, sono frutto di una situazione internazionale sempre più precaria di Mosca. Le nuove sanzioni lanciate dagli Usa per il caso di avvelenamento dell’ex agente russo Skripal e di sua figlia a Salisbury, e il progetto legge in esame al Congresso americano per intensificarle a ottobre, in caso di mancata reazione positiva da Mosca, vanno a chiudere il cerchio dell’assedio diplomatico-economico contro una Russia in sempre maggiore difficoltà. Nonostante la narrativa di una Russia protagonista dello scacchiere internazionale, la disincantata realtà della diplomazia e dei mercati è quella di un Paese ormai colpito da una decina di pacchetti di sanzioni, iniziate con l’annessione della Crimea all’inizio del 2014 e aumentate in progressione geometrica con l’amministrazione Trump, nonostante il luogo comune della posizione “filorussa” della Casa Bianca. La Russia continua regolarmente a essere nel mirino delle critiche e delle condanne in tutte le sedi internazionali: Crimea, Ucraina, Siria, le ingerenze propagandistiche in Occidente, l’avvelenamento di Salisbury, le violazioni dei diritti umani in Cecenia e nel resto del Paese, la lista si fa sempre più lunga, e nessuna di queste crisi è stata per ora in alcun modo sanata o archiviata.
In particolare, la guerra in Siria, iniziata nel settembre 2015 essenzialmente come operazione di distrazione dal fallimento di quella nel Donbass, e come tentativo di rientrare nel grande gioco della diplomazia internazionale, ha messo il Cremlino in una posizione delicata. E’ vero che l’intervento militare della Russia a fianco di Bashar Assad ha ribaltato le sorti della guerra a favore di quest’ultimo, ma l’obiettivo di Mosca di presentarsi come soluzione per il problema siriano – in particolare come alleato nella lotta all’islamismo dell’Isis – non ha raggiunto l’obiettivo, mettendo anzi in luce definitivamente come nel teatro siriano i russi abbiano agito da controparte rispetto all’Occidente, per quel che si può parlare di azione occidentale concertata. Il dinamismo russo in Medio Oriente è stato segnato da un multilateralismo senza precedenti, che però forse proprio per questo non ha portato a grandi risultati pratici: il tentativo di Putin di destreggiarsi tra interlocutori e alleati dagli interessi diversi quando non contrapposti come l’Iran, la Turchia, Israele, le monarchie sunnite del Golfo ha ampliato la presenza dei russi ai vari tavoli, ma non ha prodotto per ora soluzioni, né portato vantaggi tangibili. Nello stesso tempo, l’impegno in Siria – che dura già da tre anni, invece dei tre mesi previsti – sta avendo un costo umano, ed economico, che comincia a farsi sentire nell’opinione pubblica interna, e nello scontento per la riforma delle pensioni l’eccessivo espansionismo militare alle spese dei russi comuni è stato un argomento molto presente. Le risorse per lanciare sfide internazionali sono esaurite, e lo si vede anche dalla reazione – assente o abbastanza pacata, salvo che nelle espressioni verbali – alle pressioni occidentali, dove le sortite nei social occidentali a sostegno dell’estrema destra e dei populisti appaiono più come un’azione di disturbo che come un reale tentativo di imprimere una svolta.
La situazione politica interna
Le logiche interne e esterne stanno quindi portando il regime alla necessità di una svolta, di una nuova “distensione”, se non altro per riprendere fiato e dedicarsi alle numerose sfide interne. Del resto, le molteplici sanzioni, che soprattutto per quanto concerne quelle applicate da Washington tendono ormai a colpire anche esponenti del governo e oligarchi anche non direttamente implicati nelle varie crisi provocate dalla Russia, puntano esattamente a questo: a rendere per i sostenitori del regime troppo sconveniente perseguire posizioni estreme, per quanto premiate dal consenso in patria.
Due episodi però spiegano come ciò è difficilmente fattibile. Il primo, recentissimo, riguarda il progetto del consigliere del Cremlino per l’economia, Andrey Belousov, di sequestrare i superprofitti di numerose grandi società russe, in prevalenza del settore metallurgico. Il piano è stato cancellato dopo un’abile fuga di notizie sui social, dimostrando però come la modalità del rapporto tra il governo e i governanti rimanga sempre quella di una subordinazione totale dei secondi al primo, ai fini di una redistribuzione delle sempre più scarse risorse a favore di un élite ristretta. Quale sia questa élite lo si evince dal secondo episodio, di qualche mese fa, che ha visto degli analisti di una sussidiaria del colosso statale Sberbank licenziati per un report su Gazprom, il megaconsorzio del gas utilizzato dal Cremlino per anni sia come principale fonte di entrate valutarie che come strumento di politica estera, soprattutto verso l’Europa. Interrogandosi sulle cause del vertiginoso crollo della capitalizzazione di una delle maggiori società energetiche mondiali – dai 330 miliardi di dollari del 2007 agli appena 53,4 del 2017, nonostante l’obiettivo promesso da Putin di farla diventare la prima azienda del mondo a raggiungere il trilione (record battuto invece dalla Apple) – gli analisti hanno scritto nero su bianco quello che gli esperti del settore sapevano da tempo: “la gestione della società risponde agli interessi dei suoi appaltatori”.
La lista di questi appaltatori delle grandi opere corrisponde grosso modo a quella della top 10 dei russi più ricchi, e anche alla “lista nera” dei russi finiti sotto sanzioni occidentali: sono gli oligarchi putiniani, la cerchia intima degli amici del presidente, diventati in pochi anni ricchissimi grazie al dirottamento verso di loro degli asset della generazione precedente di oligarchi più “imprenditoriali”, e alla pioggia di appalti, dalle Olimpiadi al ponte per la Crimea, ai numerosi gasdotti e ai Mondiali di calcio. In poche parole, dal sistema degli anni Novanta, quando i grandi patrimoni permettevano di influire sulla politica, oggi in Russia per avere denaro bisogna avere il potere. Questo sistema si riproduce dal Cremlino all’ultimo governatorato della Siberia, e pregiudica in buona parte l’effetto delle sanzioni: la cerchia intima di Putin non può costringerlo a cambiare politica, perché dipende totalmente da lui, e una ribellione di alcuni suoi singoli membri comporterebbe soltanto la loro espulsione e la redistribuzione dei loro asset a favore dei “fedelissimi”. Non essendo un’élite formatasi in maniera naturale, priva di radicamento e strumenti, questo clan di potere non può costituirsi come una forza alternativa, e difficilmente può ambire anche a soluzioni di tipo golpistico.
Questo apparente stallo però viene minacciato da una scadenza naturale, quella del 2024, quando un Putin ormai 72enne verrebbe impedito dal ricandidarsi alla presidenza dalla Costituzione. Un termine che buona parte dell’élite imprenditoriale e politica russa attende con ansia, nella speranza di un avvicendamento pacifico nella direzione di una linea politica più moderata e aperta, ma che quasi tutti attendono anche con paura: il sistema è talmente centralizzato che l’eventuale uscita di scena del suo leader rischia di provocare sconquassi di portata significativa. Inoltre, a Mosca sono allo studio diverse exit strategy, tra cui una riforma costituzionale che permetterebbe a Putin di diventare una sorta di “padre della patria” non eleggibile, sul modello delle autocrazie dell’Asia Centrale.
Riassumendo, la Russia sta vivendo una serie di contraddizioni pericolose. L’esigenza di una modernizzazione per concorrere economicamente e politicamente a livello internazionale si scontra con un isolazionismo nazionalista dell’élite al potere, che contrasta con l’interesse dei suoi stessi componenti a buoni rapporti con il resto del mondo. Non solo infatti la Russia dipende economicamente dalla vendita delle sue materie prime all’estero, e in primo luogo in Europa, ma le aspirazioni degli oligarchi russi sono tutte rivolte all’Occidente, dove si trovano le loro finanze, le loro abitazioni e le loro famiglie. Nello stesso tempo, la riforma delle pensioni ha incrinato il patto sociale del putinismo – benessere economico e una “Russia tornata grande” in cambio del consenso politico e della riduzione delle libertà e del diritto alla protesta – colpendo l’elettorato principale di Putin, quello più anziano e più dipendente dallo Stato. Il tenore di vita dei russi ha smesso di crescere dal 2014, e l’indifferenza mostrata dal governo verso di loro – manifestata anche nell’assenza di qualunque dibattito preventivo a una riforma che condannerà il 40% dei maschi russi a morire prima di arrivare alla pensione (l’aspettativa di vita maschile è intorno ai 67 anni) – potrebbe alimentare anche lo scontento già diffuso per la povertà, la corruzione e l’assenza di mobilità sociale. Quanto potranno durare ancora le risorse materiali e morali del regime putiniano dipenderà da una moltitudine di fattori, così come la procedura con la quale questo regime potrà o vorrà riformattarsi, ma già oggi è abbastanza evidente come additare la Russia come modello di successo alternativo a una democrazia con libero mercato sia possibile soltanto ignorando i fatti, e i numeri, di un Paese con un PIL procapite di quasi tre volte inferiore a quello dell’Italia.