L’America e il Futuro: Nella paura del domani l’Occidente sta perdendo se stesso

Martin Waldseemüller era il cartografo di corte di Renato II di Lorena. Un giorno del 1507 il suo signore lo incaricò di realizzare una nuova carta geografica che tenesse conto degli ultimi sviluppi della esplorazione delle Indie. La divulgazione moderna sulla scoperta dell’America spesso omette di precisare un dato importante: Colombo, come la maggior parte dei primi esploratori che lo seguirono, ignorò sempre di essersi imbattuto in un nuovo continente e morì convinto di aver semplicemente scoperto una nuova via verso l’Asia. In effetti, lo stesso concetto dell’esistenza di un nuovo continente confliggeva con il modo di pensare dell’epoca. Dalla notte dei tempi, ogni cultura includeva una concezione universale del creato: non esistono cose che non si conoscono e che non siano incluse nei libri sacri. Nel Cristianesimo, come nell’Islam, nell’Ebraismo e nelle religioni più o meno politeiste che le hanno precedute il mondo era dato, con i suoi limiti e le sue estensioni prestabilite. Nell’antichità c’erano state le colonne d’Ercole, monti sacri e mari di sabbia e di acqua che semplicemente non si potevano attraversare. E all’interno dei loro limiti l’universo creato a disposizione dell’umanità. In un lontano passato, esseri umani straordinari erano stati resi da Dio (o gli Dei) depositari del Sapere Universale. Questi uomini avevano segnato le ere di grazia dell’umanità – il Cristianesimo puro delle origini, l’Islam dei califfi “ben guidati”, i regni di Davide e Salomone ecc. – di cui gli anni e i secoli successivi potevamo essere solo versioni pallide e decadenti, rovinate dai peccati e dai vizi umani. La massima aspirazione che era concessa all’umanità era quella di tentare come poteva di imitare quelle ere leggendarie, e aspettare pazientemente che la stessa divinità, dall’alto, decretasse la fine del mondo o ne inaugurasse uno nuovo, attraverso un giudizio universale o un nuovo Messia.

Il nostro Waldseemüller non era diverso dagli uomini del suo tempo. E se non fosse stato per l’insistenza del suo amico Matthias Ringmann, poeta anch’egli alla corte di Renato II, probabilmente si sarebbe attenuto a realizzare una mappa che fosse semplicemente una descrizione più precisa dello stesso mondo che aveva sempre conosciuto. L’amico però lo convinse a lasciarsi affascinare dall’idea al limite della follia di un esploratore italiano che seguendo i passi di Colombo si era avventurato lungo le coste del sud America, di fronte all’odierno Brasile: Amerigo Vespucci. Nelle mappe e nelle trascrizioni che aveva riportato dai suoi viaggi Vespucci aveva infatti osato proporre un’idea pazzesca: è possibile che queste terre al di là dell’Oceano Atlantico non siano la costa orientale dell’Asia? È possibile che siano un continente completamente nuovo? Non sappiamo con quanta convinzione, ma sta di fatto che Wandermuller alla fine si fece persuadere. Nella sua mappa, che diventerà molto popolare in tutta Europa nei decenni successivi, decise di riprodurre le terre a ovest dell’Atlantico come un continente completamente nuovo frapposto tra l’Europa e l’Asia. Visto che però non sapeva quale nome dargli, Ringmann gli suggerì di usare provvisoriamente quello dell’esploratore che per primo aveva osato proporre la sua esistenza: America. Per dirla con le parole di Yuval Noah Harari, “C’è una poetica giustizia nel fatto che un quarto del mondo, e due dei suoi sette continenti, siano intitolati a un italiano semisconosciuto il cui solo vero merito è stato quello di aver avuto il coraggio di dire ‘noi non sappiamo’”.

Secondo Harari e altri studiosi la scoperta dell’America segna il vero inizio del pensiero scientifico. La consapevolezza che esistessero cose nuove e che potessero effettivamente essere scoperte ruppe in Europa il millenario incantesimo delle verità rivelate. ‘Non sappiamo’ significa anche che ‘possiamo sapere molto di più’. Il progresso scientifico e tecnologico, che per millenni aveva seguito un andamento del tutto casuale e spesso accidentale, diventò una ricerca sistematica trasformando l’Europa, che fino a quel momento era solo l’ombra retrograda dei grandi imperi del Medio Oriente e dell’Est, in una civiltà in grado di conquistare e influenzare il mondo intero. Da quel giorno in cui un cartografo diede un nome bislacco a un ipotetico Nuovo Mondo, l’Europa cominciò a credere nell’uomo e nel suo intelletto. Cominciò a credere nel futuro.

Cinque secoli dopo, l’eredità di Waldseemüller non è più appannaggio dei soli europei. Di mezzo ci sono state tutte le luci e le tante ombre della repentina ascesa dell’Europa a Continente Mondiale. C’è stato il colonialismo e i suoi crimini, ma c’è stata anche la creazione del mondo globale come un’unica entità interconnessa, dove popoli distanti per millenni inconsapevoli l’uno dell’altro sentono oggi di far parte della stessa razza umana e di un destino condiviso. C’è stata soprattutto la diffusione di ideologie nuove e progressive (e più o meno totalitarie) che dall’Europa si sono adattate a nuovi contesti locali e instillato la fede nel futuro. Cina, India, i paesi in via di sviluppo dell’Est Europa, dell’Africa e del Sud America vivono e si sviluppano secondo l’idea che il domani possa essere davvero migliore dell’oggi. Ma è in Occidente, sua culla ed origine, che questa idea sta lentamente sbiadendo. Soprattutto negli Stati Uniti che per tutto il Novecento sono stati i più brillanti eredi di quella mentalità. Provare nuove strade ha portato a errori, alcuni evitabili forse, altri meno. Perché pensare che il futuro sia nelle nostre mani può generare grandi successi e conquiste. Ma anche grandi fallimenti, crisi economiche, ineguaglianze, mancanza di riferimenti. Fallimenti che hanno portato nuovamente molti in Occidente a guardare al passato come esempio irraggiungibile di perfezione; e a temere il futuro, a eluderlo come una minaccia. Il mito dell’”utopia retrospettiva” è da sempre una bandiera dei movimenti di destra che nei periodi di crisi più dura hanno spesso riconquistato le menti di milioni di individui, a volte di interi paesi. Promettendo di ricostruire glorie passate, immaginifiche e più o meno reali: la gloria di Roma, i grandi imperi britannico e francese, il leggendario impero ariano. Ma imperversa sempre più anche a sinistra, facendo sbiadire una storia che l’ha spesso vista fregiarsi orgogliosamente anche di un altro aggettivo: Riformista. Risuona negli slogan del Labor novecentesco di Corbyn, o nella sua versione edulcorata e americana di Bernie Sanders. Risuona soprattutto nel populismo di ogni colore che nel passato, nella lira, negli stati nazionali, e nelle glorie del dopoguerra ha le sue narrazioni più vincenti.

Il populismo passatista di Trump l’8 novembre si appresta a lanciare la grande sfida alla democrazia americana con modalità che sembrano un grande esorcismo da stregoni su una America terrorizzata dal futuro. E dopo potrebbero arrivarne altri, in una Europa che guarda sempre più ad esempi di leader che sembrano poter conquistare il presente richiamando grandezze e glorie passate, da Putin a Orban. Ma le risposte di domani, in un mondo caratterizzato da una complessità senza precedenti, non possono arrivare dall’imitazione pallida di ricordi passati, dagli uomini forti e dal bullismo di stato.

Gli Stati Uniti ancora una volta, forse l’ultima, segnano il passo. L’8 novembre giungono a un bivio dal significato globale, dopo il quale molto presto arriverà anche il turno dell’Europa e dell’Italia. La speranza è che l’America non tradisca il cuore autentico e progressivo del suo passato, e con esso la sua speranza di futuro: che non tradisca sé stessa, e il suo stesso nome.

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