Russia: spiragli di cambiamento?

People with national flags and various political parties flags gather during a protest in Moscow, Russia, Saturday, Aug. 10, 2019. Tens of thousands of people rallied in central Moscow for the third consecutive weekend to protest the exclusion of opposition and independent candidates from the Russian capital’s city council ballot. (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Lo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina, 35 prigionieri per parte, è stato il primo di questa portata in cinque anni di guerra. Dalle prigioni russe sono stati liberati il regista crimeano Oleg Sentsov – riconosciuto dalla comunità internazionale come detenuto politico e insignito dal Parlamento Europeo del Premio Sakharov – e i 24 marinai militari sequestrati dalla Russia nell’incidente dello stretto di Kerch nel novembre scorso, oltre ad altri prigionieri politici. I russi restituiti al Cremlino sono stati mostrati nelle foto ufficiali con i volti coperti dalla sgranatura, che metteva ulteriormente in risalto i loro corpi muscolosi da membri delle truppe speciali: si tratta in prevalenza di guerriglieri e infiltrati nel Donbass. Rilevante è stata anche la differenza mediatica nel trattare l’evento nei due Paesi: in Ucraina, una festa nazionale, con il presidente Vladimir Zelensky – che ha realizzato la sua promessa elettorale di riportare a casa gli ucraini prigionieri – ad abbracciare gli ostaggi sotto la scaletta dell’aereo e autobus con i vetri scuri scortati dalla polizia per i russi atterrati a Mosca.

Il ritorno degli ostaggi consolida ulteriormente la posizione di Zelensky, che in poco più di 100 giorni di presidenza ha già conquistato la maggioranza assoluta nella nuova Rada e nominato un nuovo governo senza concedere nulla all’opposizione. Resta da capire perché il Cremlino ha concesso a Zelensky una tale apertura di credito, considerando che il nuovo leader ucraino non sembra, nonostante le accuse dei suoi critici, incline a concedere qualcosa a Mosca, esigendo il ritorno all’Ucraina della Crimea e del Donbass. Un gesto di buona volontà per far ripartire il processo negoziale di Minsk, è la spiegazione ufficiale dei portavoce del Cremlino (che ha accettato anche l’eliminazione dalla trattativa di Viktor Medvedchuk, il “comare di Putin”, capo della lobby filorussa e tradizionale mediatore tra Kiev e Mosca). I giornali indipendenti hanno però indicato un altro aspetto della lunga e tormentata trattativa sullo scambio di prigionieri: Kiev è stata costretta a liberare e restituire ai russi Vladimir Zemakh, separatista del Donbass e testimone chiave dell’abbattimento del Boeing malese nel luglio 2014. La magistratura olandese (la maggior parte delle 298 vittime sull’aereo partito da Amsterdam alla volta di Kuala-Lumpur era dei Paesi Bassi) ha chiesto a Kiev di non estradare un testimone così prezioso, ma lo stesso Zelensky ha ammesso che altrimenti Mosca avrebbe cancellato lo scambio.  

Esiste però anche una chiave di lettura più politica, da cercare nei risultati delle elezioni amministrative tenutesi domenica 8 settembre a Mosca, Pietroburgo e altre città russe. Nella capitale l’opposizione ha conquistato 22 seggi su 45, mancando per poche decine di voti la maggioranza nella Duma di Mosca: un trionfo di Alexey Navalny e dei suoi sostenitori, nonostante mesi di arresti, manifestazioni con manganellate, perquisizioni, conti bloccati e minacce agli attivisti. I candidati di Navalny sono stati esclusi dal voto, i brogli e le manipolazioni sono stati numerosi e documentati, ma nonostante questo i candidati del potere hanno subito in metà delle circoscrizioni una sonora sconfitta. 

Merito della campagna di Navalny, tra Internet e piazza, feroce, chiara e ben organizzata, che alternava rivelazioni sulla corruzione dei candidati governativi – il capo del partito Russia Unita della capitale, Metelskij, ha perso contro un semisconosciuto dopo la pubblicazione del suo patrimonio estero, con tanto di catena di alberghi di lusso in Austria – al cosidetto “voto intelligente”, un’invenzione di Navalny per convogliare il voto di protesta su un solo nome, quello dell’oppositore con più chance. Una tattica che gli ha attirato molte critiche in quanto la maggioranza del “listino Navalny” era composta da comunisti, ma che ha prodotto un attacco senza precedenti alle istituzioni del regime.

L’affluenza al voto è stata bassissima, intorno a un quinto degli aventi diritto quasi ovunque. La maggior parte dei russi ha votato con i piedi e, considerato che i sondaggi da mesi ormai registrano una caduta a picco della popolarità del Cremlino, gli spin-doctor governativi non hanno incitato gli elettori a recarsi alle urne, preferendo manipolare lo zoccolo duro dei dipendenti pubblici. I membri di Russia Unita non hanno presentato nemmeno una lista, correndo tutti come “indipendenti” per non mostrare nelle schede un logo che avrebbe suscitato soltanto odio. La risposta positiva degli elettori al “voto intelligente” di Navalny però ha mostrato che lo scontento da diffuso può diventare organizzato e guidato, e che il regime è vulnerabile agli strumenti della democrazia, perfino se limitata da censura e repressione. 

UE questo potrebbe spiegare anche l’improvvisa apertura verso l’Ucraina. La situazione domestica, con la crisi economica e uno scontento ormai a malapena gestibile, non permette a Putin di mantenere aperto un fronte di guerra. La retorica bellicosa, che negli anni precedenti aveva pagato elettoralmente, ora sembra suscitare soltanto rabbia, e le gesta “geopolitiche” appaiono un lusso. La riapertura del negoziato di Minsk con Zelensky, Macron e Merkel, con la possibile cooptazione di Trump come chiesto dal leader di Kiev, permetterebbe forse al Cremlino di concentrarsi sul fronte interno, anche aumentando la repressione che però l’Occidente, in caso di distensione sui fronti internazionali, sarebbe meno incline a criticare. Mosca ha un bisogno disperato di uscire dall’isolamento internazionale, alleviare le sanzioni, attirare gli investimenti, e riconquistare un consenso che permetta al regime di porsi degli obiettivi e non soltanto di lavorare per la propria sopravvivenza.

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