Sabato 20 giugno, il presidente Donald Trump ha tenuto il suo primo raduno elettorale in vista delle elezioni del 4 novembre di quest’anno, a Tulsa (Oklahoma). In realtà, il comizio avrebbe dovuto tenersi il giorno precedente, il cosiddetto “Juneteenth”, la festività che ricorda l’anniversario dell’abolizione della schiavitù nel 1865, ma è stato posticipato al giorno successivo a causa delle polemiche scatenate. Questa ‘coincidenza’ temporale controversa si sommava ad un’altra coincidenza spaziale. Infatti, Tulsa, tra i mesi di maggio e giugno del 1921, fu il luogo di un orrendo massacro ai danni della fiorente comunità afroamericana. L’evento è stato un flop, l’arena mezza vuota ben visibile nelle foto (in tutto diciannovemila posti), quando invece gli organizzatori si aspettavano tra le 800mila e 1 milione di persone. Le motivazioni di questa brutta figura sono molteplici: la paura della diffusione del virus, i giovani che su Tik Tok hanno prenotato in massa senza presentarsi, l’ambiguità della scelta di luogo e data – per Trump un modo per celebrare il lavoro fatto per gli afroamericani, per gli oppositori un oltraggio alla memoria. A partire dall’episodio della morte di George Floyd a Minneapolis, proteste pacifiche ma anche scontri hanno scosso gli Stati Uniti, alimentando un dibattito sul razzismo sistemico e sull’inclusione sociale che ha raggiunto anche l’Italia. Si tratta di uno spunto interessante per analizzare quanto l’unità e l’identità di un paese siano essenziali per mettere in atto politiche efficaci, di cui c’è estremo bisogno nel mezzo di una pandemia globale.
L’identità nazionale tra dibattiti e discussioni
Il tema dell’identità di una nazione è sempre in discussione nelle democrazie, che sulla pluralità interpretativa della nozione di ‘bene comune’ fondano la propria dialettica, con sfumature che vanno ad incidere sul senso profondo dello Stato, definendo i suoi simboli caratterizzanti. Da sinistra, ad esempio, ci stupiscono le differenze che esistono sulla concezione di apertura della democrazia e dei diritti, ma ancora più essenziale è riflettere sui temi trasformativi. Ovvero, su come si afferma e perché una determinata lettura e che impatto può avere sul progresso – o regresso – sociale. Le nostre comunità politiche sono fondate sulla convivenza di due elementi: continuità e progresso che, se bilanciati, portano ad uno sviluppo che oggi definiremmo sostenibile. Un equilibrio labile che può rompersi quando la storia porta a strappi che generano un conflitto fra questi due termini della realtà: riforma e controriforma, rivoluzione e restaurazione. L’osservazione degli eventi che stanno sconvolgendo sia il mondo sia la nostra quotidianità attraverso il filtro dei termini teorici, ci aiuta a raffreddare il nostro punto di vista, permettendoci una prospettiva relativamente più distaccata.
È proprio in questa prospettiva che le manifestazioni iniziate negli Stati Uniti ed esportate in Europa assumono un significato più complesso che scavalca la semplice influenza culturale e la solidarietà, installandosi nella capacità anticipatoria di quel contesto. Infatti, sebbene in Italia le manifestazioni sotto il cappello di Black Lives Matter siano state espressione di una minoranza – mentre negli USA si tratta di un movimento ben più consistente – hanno generato un importante dibattito che va dalla tragedia delle morti nel mediterraneo alla statua di Indro Montanelli a Milano. Questo dibattito ha stimolato riflessioni tutt’altro che minoritarie nel Paese, con implicazioni spinose proprio per l’interpretazione di quell’identità nazionale espressa in dialettica dalle democrazie. A questa dialettica ontologica si ricollegano le parole del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, Joe Biden, che qualche giorno fa ha detto:
“Questa è una battaglia per l’anima dell’America. Chi siamo? Chi vogliamo diventare? Come vediamo noi stessi? E come pensiamo che dovremmo essere?”
La diatriba sui monumenti che riguarda anche Cristoforo Colombo
Dopo anni di identity politics e polarizzazione kafkiana, esacerbate dalla presidenza di Donald Trump negli USA e dal populismo in Europa, definire le cose che abbiamo in comune è molto difficile. Il riconoscimento pubblico delle differenze, e di ciò che tali differenze comportano, è utile a far sì che la collettività adotti delle misure adeguate a rispondere alle esigenze degli individui. Dall’altro lato, può portare ad un ragionamento per compartimenti stagni, come sistemi chiusi, stimolando la balcanizzazione delle comunità politiche quando, invece di includere, esclude. Se sulle policy da mettere in atto si possono più facilmente trovare compromessi, è proprio sui simboli che si determina lo scontro, poiché oggi sono sempre più interpretati in un’ottica soggettiva o di gruppo. Da qui la diatriba sui monumenti a Cristoforo Colombo, che coinvolge indirettamente anche l’Italia attraverso l’importante comunità italo-americana negli USA. Sebbene Colombo non possa essere imputato direttamente di schiavismo, è stato incluso già da tempo, da una parte del movimento, tra i simboli dell’imperialismo e dell’oppressione. L’espiazione di questo peccato originale, che affonda le proprie radici nella storia statunitense, riguarda in realtà tutto l’occidente e, dal punto di vista politico, è tremendamente difficile da gestire, soprattutto per le sinistre. Se, da un lato, Trump gioca sul sentimento di accerchiamento da parte dei bianchi, sul rigetto del senso di colpa rispetto alle azioni dei loro predecessori, sul rifiuto di mettere in discussione la propria identità e sulla frustrazione per l’impossibilità di rivendicarla anche parzialmente, dall’altro lato, ancora orfani della leadership di Obama, i democratici americani sono chiamati a mettere in atto un’agenda ancora più coraggiosa.
Il fallimento della policy
Nel 2004, alla Convention democratica dove si fece notare per la prima volta, Barack Obama disse che “Non esiste un’America nera e un’America bianca, un’America latina e un’America asiatica, esistono gli Stati Uniti d’America.” Oggi sembra impossibile pensare ad un messaggio unitario di questo tipo, senza che nessuno dei gruppi citati si senta minacciato nella riconoscibilità della sua esistenza. Donald Trump sa che questo è un punto debole per i Dem, da cui immagina di poter trarre vantaggio, dipingendoli come sotto scacco della sinistra radicale. Il bisogno che ha il partito democratico statunitense di definire un messaggio più efficace su questi temi, è lo stesso anche dal lato europeo dell’Atlantico, aggravato da una pandemia globale in corso, in cui i cittadini hanno bisogno di risposte estremamente concrete contro la povertà e la marginalizzazione sociale. L’identità collettiva passa attraverso i filtri dell’identità individuale, valori e principi attraverso cui si dà senso alla realtà, perciò le politiche che si mettono in atto per risolvere i problemi variano da policymaker a policymaker. Per Trump, ad esempio, il razzismo e la violenza non sono problemi sistemici, sono sufficienti misure accessorie come l’eliminazione della presa al collo – la famigerata Knee-on-neck che ha ucciso George Floyd – da parte della polizia. Se l’interpretazione fallisce, anche la policy fallisce.
In questo senso, l’identità collettiva è una proiezione di come noi leggiamo la nostra realtà e da cui, quindi, derivano le risposte che daremo a quelle domande, a quei bisogni, che siamo in grado di intuire e rappresentare. Perché è questo il compito di una democrazia rappresentativa. Se tra queste domande e le loro risposte si insinua un dilemma di incoerenza narrativa, il risultato sarà intuitivamente di disturbo e rischia di mettere in crisi l’efficacia della campagna elettorale in atto; come una nota fuori posto, uno scontro sulla narrativa del ‘noi’ che sembra essere solo all’inizio, un pelo nell’uovo di Colombo.