Cosa abbiamo imparato dalle Olimpiadi di Tokio?

I Giochi olimpici di Tokyo 2020 sono stati “le Olimpiadi del Covid-19”, per molte altre ragioni rispetto a quelle ovvie e abbondantemente dibattute nel corso dell’evento, concernenti la risposta sanitaria nazionale nipponica, con relative polemiche domestiche, e la politica precauzionale adottata a salvaguardia di atleti, operatori e volontari. Infatti, nessuno degli eventi sportivi precedentemente celebrati a mo’ di recupero delle manifestazioni sospese o annullate a seguito della diffusione pandemica del contagio, compresi quelli di dimensioni ragguardevoli, come gli Europei o la Copa América di calcio, poteva per ragioni numeriche e simboliche chiamare in causa le ragioni del globalismo e del localismo, che sono dei corollari inevitabili delle politiche internazionali di contrasto al virus.

Sarebbe dunque fuorviante non considerare tutta la discussione sull’opportunità dello svolgimento dei Giochi (e altrettanto dicasi per i paralimpici, che sono in procinto di iniziare) sotto questo punto di vista, a suo modo epocale: per il CIO, una delle organizzazioni internazionali che più iconicamente rappresentano i tempi del globalismo, essere riusciti nell’impresa di portare a termine Giochi olimpici caratterizzati dal record di discipline e specialità, con defezioni nazionali attinenti a ragioni differenti e pregresse rispetto alla pandemia da Covid-19 (si veda il caso della Russia, con gli atleti che hanno gareggiato sotto il vessillo olimpico per lo scandalo del doping di Stato; o quello della Corea del Nord, caratterizzato dalle vicende geopolitiche a tutti i nostri lettori ben note), rappresenta un innegabile successo ed è impossibile non notare quanto un esito differente dell’impresa in Sol Levante avrebbe reso inimmaginabili i toni di lieta speranza che hanno caratterizzato l’annuncio di Parigi 2024, da parte del Presidente della Repubblica francese Macron e della Sindaca Hidalgo.

Le dimensioni dell’evento olimpico, che sono andate in costante crescendo durante la storia, non sono dunque conseguenza di processi ineluttabili, ma merito di organizzazione e lavoro. Questo assunto rende gelido il rammarico per l’occasione persa da Roma per l’organizzazione dei prossimi Giochi, oltre a responsabilizzare la nostra organizzazione olimpica in vista di Milano-Cortina 2026, che sarà preceduta dalle Olimpiadi invernali dell’anno prossimo a Pechino. La Capitale cinese e tutto lo Stato si apprestano a rispondere ai vicini giapponesi con la seconda rassegna olimpica nel breve volgere di quattordici anni, in una sfida per l’egemonia culturale, ma non solo, sul Continente asiatico, che è tutt’altro che sottaciuta dai rispettivi governi.

C’è ormai consapevolezza nell’opinione pubblica che quelle del 2022 saranno anche le seconde olimpiadi e paralimpiadi in tempi di Covid-19 e non può non notarsi come le prime siano state la rassegna sportiva globale più caratterizzata nella storia dal tema della salute mentale: dall’ultima tedofora Naomi Osaka, ad una delle atlete che si attendevano come protagoniste assolute della rassegna olimpica, la ginnasta statunitense Simone Biles, fino alla grande promessa del nuoto italiano Benedetta Pilato, sono state particolarmente le atlete a far irrompere nel racconto a cinque cerchi la questione che, come conseguenza delle restrizioni alla socializzazione obbligate in tutto il mondo dal Covid-19, sta diventando vieppiù cruciale nel dibattito politico sul welfare durante e dopo la pandemia.

Le paralimpiadi di Tokyo saranno inoltre le più viste di sempre nel mondo: si prevede infatti un pubblico di circa 4 miliardi di telespettatori e si discute in questi giorni se consentire anche una limitata presenza di pubblico negli impianti sportivi, in particolare tra i giovanissimi studenti delle scuole nipponiche, nell’ottica della diffusione del messaggio di inclusione e apertura sociale universale, cui le istituzioni giapponesi, come oggettivamente il CIO, hanno dato prova innegabile di tenere molto. Dalla scelta della pallavolista italiana Paola Egonu per rappresentare l’Europa tra gli atleti che portavano il vessillo olimpico, lei lesbica e di colore; alla prima partecipazione di un’atleta transgender, la neozelandese Laurel Hubbard nella categoria +87 kg del sollevamento pesi, sono stati diversi i messaggi simbolici di valore storico lanciati da Tokyo 2020.

Mentre la rappresentativa olimpica dei rifugiati politici ha contato 29 atleti, quasi tre volte quelli presenti a Rio, provenienti da 13 nazioni diverse e con un proprio entourage, un missione olimpionica vera e propria, con relativa organizzazione, la questione dei rifugiati, c’è da crederlo purtroppo, si porrà con rinnovato vigore sia durante le paralimpiadi al via, sia durante i prossimi appuntamenti pentacerchiati, alla luce degli sviluppi drammatici della crisi afghana, che in termini di organizzazione sportiva hanno comportato anche la necessaria rinuncia del Comitato paralimpico nazionale alla partecipazione programmata, per l’impossibilità di raggiungere Tokyo in sicurezza per delegazione ed atleti. Tra questi, in particolare, ha destato emozione e mobilitazione nell’opinione pubblica internazionale e nel mondo dello sport il caso di Zakia Khudadadi, che ha potuto lasciare il Paese in sicurezza grazie all’accoglienza umanitaria del Governo australiano e potrebbe tuttora riuscire a partecipare, come prima donna afghana, alle paralimpiadi di Tokyo.

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