Lo scorso 26 febbraio, mentre l’attenzione del mondo era comprensibilmente concentrata su quanto sta accadendo in Ucraina, l’IPCC – il panel scientifico ONU sul cambiamento climatico – presentava le conclusioni del rapporto sugli impatti del cambiamento climatico. Il Rapporto “Climate change 2022: Impatti, adattamento e vulnerabilità” dimostra come gli eventi estremi legati al cambiamento climatico stiano accadendo con frequenza maggiore e in maniera più rapida rispetto a quanto ci si aspettasse dai precedenti studi, e che gli impatti sono più devastanti di quanto previsto, tanto da superare le fragili misure messe in campo finora per contenerli. Tradotto in altre parole: non c’è più tempo da perdere. Occorre agire fin da subito tanto sul fronte della mitigazione, cioè della riduzione delle emissioni, quanto su quello dell’adattamento, cioè della costruzione di resilienza agli impatti del cambiamento climatico. Soprattutto, ciò significa che gli impegni climatici, e su tutti l’impegno a mantenere l’innalzamento della temperatura entro 1,5°C, non sono negoziabili, né rimandabili. Ogni frazione di grado superiore mette infatti a rischio non solo la sicurezza dell’ambiente in cui viviamo, ma la stessa sicurezza umana.
Per sicurezza umana si intende la sicurezza dell’essere umano in tutte le sue dimensioni: alimentare, idrica, salute fisica e mentale, sociale, economica e ambientale. Perché il cambiamento climatico mette a rischio tutte queste dimensioni? Perché, come riconoscono scienziati e analisti ormai da tempo, esso agisce come un potentissimo “moltiplicatore della minaccia”: pensate a una minaccia qualsiasi, il cambiamento climatico la aumenta e la rende più intensa. Non è infatti un rischio tra i tanti, ma è il rischio che ha la capacità di impattare su diverse dimensioni – sviluppo, salute, sicurezza, migrazioni – generando effetti a cascata, dal potenziale dirompente. Aumento delle temperature, ondate di calore sempre più frequenti, alterazioni nel ciclo delle precipitazioni sono alla base di fenomeni quali desertificazione e insicurezza idrica; quest’ultima a sua volta mette a repentaglio la sicurezza alimentare, che può causare insicurezza socio-economica. Quest’ultima poi aumenta il rischio di instabilità politica e geopolitica, che potrebbe sfociare in conflitti e conseguenti fenomeni migratori. Lo abbiamo visto accadere nel decennio scorso, quando le rivolte per il pane in contesti fortemente autoritari quali i paesi di Medio Oriente e Nord Africa sono state tra i fattori all’origine delle cosiddette Primavere arabe, poi sfociate in rivoluzioni, restaurazioni violente e, in alcuni casi, guerre civili tutt’oggi in corso. Le Primavere arabe e l’instabilità che ne è conseguita sono state anche alla base di ingenti flussi migratori diretti verso l’Europa, dove sono stati strumentalizzati da partiti politici populisti e sovranisti che hanno utilizzato l’emergenza per avanzare la propria agenda di arretramento democratico.
Il rapporto IPCC rivela come, se non si agisce in maniera tempestiva, eventi climatici estremi quali ondate di calore, tempeste, siccità e inondazioni rischiano di avere conseguenze nefaste sulla sicurezza umana, con effetti a cascata sul piano geopolitico. Ma il nesso tra sicurezza umana e rischio geopolitico è valido anche in senso inverso: lo vediamo in questi giorni proprio nella crisi ucraina. Da Russia e Ucraina dipende circa un quarto delle esportazioni mondiali di grano. L’Ucraina è il maggior paese europeo per terra coltivabile, il primo esportatore di girasoli e prodotti derivati, l’ottavo esportatore mondiale di grano. È talmente centrale per il mercato alimentare mondiale che proprio un anno di cattivo raccolto in questo paese, nel 2010, dette origine a quell’aumento dei prezzi alla base delle Primavere arabe.
La guerra tra Russia e Ucraina avviene in un momento in cui il mercato alimentare mondiale è già sotto stress: i prezzi sono ai livelli massimi dal 2011 per effetto di una serie di cattivi raccolti, e i paesi più vulnerabili allo shock sono proprio i paesi in via di sviluppo. Dei 14 paesi per i quali il grano ucraino rappresenta un import essenziale, circa la metà soffre di insicurezza alimentare severa, inclusi Libano e Yemen, due paesi attualmente in situazione di emergenza umanitaria.
Ma se le sfide sono collegate, lo sono anche le risposte. La risposta all’aggressione russa e la risposta alla crisi climatica passano entrambe da una riduzione della dipendenza dai combustibili fossili. L’esigenza di ridurre le importazioni di gas russo è ormai riconosciuta a livello europeo, in parte per non alimentare le casse di un regime che si sta rendendo responsabile di un’aggressione contraria alle leggi del diritto internazionale, in parte per emanciparsi dalla strumentalizzazione dell’arma energetica da parte di Mosca, che già da alcuni mesi sta agendo per mantenere il prezzo del gas a livelli record.
Ma lo shock attuale deve essere utilizzato non come semplice spinta alla diversificazione degli approvvigionamenti, bensì come spinta per un’accelerazione verso un nuovo modello di sviluppo. Un modello basato su fonti di energia rinnovabile come base di un nuovo patto sociale in quei paesi in cui la rendita da fonti fossili alimenta sistemi autoritari; un modello basato non più su relazioni di dipendenza tra stati ma di interdipendenza e cooperazione, slegati dalla logica di accaparramento delle risorse che ha accompagnato lo sfruttamento delle fonti fossili. È per questo che, nella disperata ricerca di fonti di energia alternative al gas russo di questi giorni, occorre tenere presente che il gas da fornitori alternativi rappresenta una soluzione per tamponare l’emergenza, ma non può rappresentare una scelta di lungo periodo. In particolare, preoccupa la frenetica ricerca di fornitori alternativi tra i paesi del Mediterraneo, tra cui l’Algeria, dove si è recato in visita il ministro degli Esteri Di Maio lo scorso 28 febbraio. A seguito della visita, la Farnesina ha annunciato di essere pronta a una nuova cooperazione energetica con l’Algeria “sul breve, medio e lungo periodo”. È proprio quest’ultima parte a destare preoccupazione: la cooperazione energetica sul medio e lungo periodo con l’Algeria dovrebbe essere incentrata su un sostegno alla giusta transizione nel paese; una gestione ordinata della transizione energetica in linea con gli imperativi della giustizia climatica, e da cui discenda auspicabilmente un nuovo patto sociale, non più basato sul compromesso autoritario tipico dei paesi dipendenti dalla rendita da oil&gas. Al contrario, il rafforzamento dell’attuale relazione basata sull’estrazione e lo sfruttamento delle risorse appare pericoloso per almeno due motivi: si ritarda la transizione ecologica del paese, che dovrebbe invece cominciare oggi stesso data l’elevata fragilità climatica non solo dell’Algeria ma dell’intera regione mediterranea, un vero e proprio hub del cambiamento climatico. In secondo luogo, si sostituisce una dipendenza con un’altra dipendenza, non tenendo conto del fatto che, nonostante l’apparente stabilità, l’Algeria è un paese molto fragile, oggi ancora più esposto al rischio di una nuova Primavera araba insieme ad altri paesi della regione Mena proprio a causa dei segnali allarmanti che vengono dai mercati alimentari mondiali. Dal momento che il processo di transizione ecologica, soprattutto nei paesi dipendenti dagli idrocarburi, richiede tempo e risorse, occorre cominciare a investirvi fin da oggi.
Se dunque in questi giorni l’attenzione e il dibattito sono concentrati, a ragione, sulla guerra in Ucraina, ciò non deve distogliere l’attenzione dai profondi rischi per la sicurezza umana che incombono a causa del cambiamento climatico. Non si tratta di scegliere ciò che è prioritario, o di derubricare l’azione climatica come non altrettanto urgente rispetto alla situazione in Ucraina. Sicurezza climatica e geopolitica sono infatti profondamente interconnesse. Ci attendono inoltre mesi impegnativi sul fronte economico, a causa della guerra. L’azione climatica potrebbe dunque venire percepita come poco urgente rispetto agli imperativi della crescita economica a ogni costo. Ma agire con urgenza sul fronte climatico non significa sposare il paradigma della decrescita felice: significa lavorare incessantemente per la costruzione di un nuovo modello di sviluppo che affianchi crescita economica e tutela del pianeta; una crescita economica che sia per tutti, equamente distribuita, fuori dalle logiche del profitto a ogni costo; una crescita economica, insomma, che rimetta al centro l’umano e i suoi diritti. Ci attendono mesi impegnativi e trasformativi: occorre agire perché dalla crisi emerga un sistema diverso, un sistema che rimetta al centro la sicurezza umana.
Di seguito si individuano alcune indicazioni di policy che dovrebbero guidare l’azione del governo nei prossimi mesi:
Nella ricerca di fornitori alternativi alla Russia, è necessario compiere un’attenta analisi costi-benefici dell’opportunità di stipulare nuovi accordi di fornitura di fonti fossili rispetto al formulare investimenti nella transizione ecologica degli stessi paesi. Se nel breve periodo infatti nuove forniture di gas e petrolio sono necessarie per compensare le minori importazioni dalla Russia, sul medio e lungo periodo anche la formulazione di partnership sull’energia deve essere guidata dal principio dell’accelerazione sullo sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica che emerge dalla nuova strategia europea RePowerEU. Durante l’ultimo meeting dei paesi esportatori di gas, tenutosi a fine febbraio in Qatar, questi hanno sottolineato come il riorientamento delle loro forniture verso l’Europa richieda massicci investimenti in infrastrutture e contratti a lungo termine: questi investimenti sono però incompatibili con gli obiettivi di azione climatica sottoscritti dai paesi firmatari dell’accordo di Parigi, e rischiano pertanto di divenire stranded assets.
Nella creazione di nuove partnership energetiche con i paesi del Mediterraneo e dell’Africa, delineare strategie di lungo periodo che portino a una giusta transizione, e non blocchino né questi paesi né l’Italia in relazioni di dipendenza dai combustibili fossili. Le nuove partnership devono dunque includere oltre a un aumento delle forniture di combustibili fossili nel breve periodo, anche una strategia per il medio e lungo periodo che possa portare questi paesi a dispiegare l’enorme potenziale di sviluppo di rinnovabili. Il loro utilizzo deve avvenire in maniera primaria per lo sviluppo economico in loco, necessario alla stabilità politica, e in maniera secondaria per l’esportazione verso l’Europa. A livello di infrastrutture, ciò significa prediligere la costruzione di interconnessioni elettriche in grado di supportare nel breve periodo il gas e nel medio-lungo l’elettricità prodotta da rinnovabili, anziché gasdotti.
Dare massima trasparenza ai contenuti delle intese e dei nuovo accordi siglati durante le missioni del ministro Di Maio in Algeria, Qatar, Angola, Repubblica Democratica del Congo, così come alle nuove intese che verranno siglate nelle prossime settimane. In questo momento, cittadini e imprese pagano il prezzo più alto della crisi energetica in atto: è loro diritto dunque essere pienamente informati delle scelte politiche alla base così come dei termini economici delle nuove partnership energetiche dell’Italia.
IPCC-Policy-paper