La direttiva sul salario minimo: non un obbligo ma uno stimolo ad affrontare il tema salariale

Toni entusiasti per l’accordo – raggiunto dopo un anno e mezzo di discussione – sulla Direttiva sul salario minimo europeo, primo passo per combattere quel fenomeno per cui in Europa ci sono lavoratori che si trovano sotto la soglia di povertà nonostante abbiano un’occupazione, a causa di salari troppo bassi.

E’ un passaggio storico soprattutto per il messaggio politico che emerge dalle lunghe trattative per questa intesa. L’Ue lentamente va costruendo l’Europa sociale, un Europa che, dopo Sure, il meccanismo per finanziare gli strumenti di sostegno al reddito durante la pandemia, continua ad avvicinarsi  ai lavoratori provando a intervenire sul lavoro povero e sulle retribuzioni.

Le prossime tappe prevedono  il voto della plenaria del Parlamento europeo e la ratifica della Direttiva da parte del Consiglio Ue lavoro, seguito dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale.

Gli Stati membri avranno poi due anni per recepire la direttiva e legiferare in materia.

Ma a ben guardare, sul tema del salario minimo cambia ben poco al momento. La Direttiva impone agli Stati membri un’obiettivo da perseguire: promuovere -nel rispetto dei sistemi di welfare e delle leggi in tema di lavoro – salari adeguati ed equi in tutta l’Unione Europea e rafforzare la contrattazione collettiva.

Cosa cambia in sostanza? Per i paesi membri dell’Ue che hanno già un salario minimo, questo dovrà essere adeguato all’inflazione; per coloro che ancora non hanno una legge sul salario minimo, tra cui l’Italia, non c’è nessun imperativo da Bruxelles a introdurre la legge, né tantomeno viene definito un salario minimo unico in Europa. Cosa impensabile, date le differenze tra salari e livelli di produttività tra i 27. La Direttiva si limita a fare da cornice e fissare i criteri generali per giungere a salari minimi adeguati ed equi.

Nessun obbligo a introdurre il salario minimo per gli Stati membri, quindi, anche in virtù delle profonde differenze che contraddistinguono i 27 sul tema del lavoro, specie sul peso che storicamente la contrattazione collettiva riveste in alcuni paesi, in primis l’Italia.

D’altronde lo strumento della Direttiva, atto comunitario più debole rispetto al Regolamento, mostra già la difficoltà che il provvedimento sul salario minimo incontrerà nel suo percorso all’interno degli Stati membri. Spetterà infatti ai Parlamenti nazionali recepire la Direttiva e legiferare con un atto normativo. Un passaggio tutt’altro che semplice e scontato, specie in paesi, quali l’Italia, in cui il tema divide le forze politiche e le parti sociali.

L’accordo politico per la Direttiva pone la prima fondamentale pietra al pilastro dell’Europa sociale. Un’Europa che sconta  fortissimi divari. A livello di retribuzioni si va dai 332euro circa di salario minimo in Bulgaria ai 2000 euro del Lussemburgo.

Attualmente 21 paesi membri hanno già una legge sul salario minimo. Questi paesi dovranno aggiornare almeno ogni due anni il salario minimo, coinvolgendo le parti sociali, seguendo criteri specifici legati all’aumento del costo della vita, ai livelli di produttività e considerando le condizioni socio-economiche.

L’Italia, assieme a Danimarca, Austria, Finlandia, Svezia e Cipro, non ha ancora una legge che garantisce un salario minimo stabilito, nonostante se ne parli da anni anche per dare esecuzione piena, 70 anni dopo, all’articolo 36 della Costituzione che enuncia il principio della giusta e proporzionata retribuzione per i lavoratori senza tutela.

La questione della contrattazione collettiva, che deve riguardare almeno l’80% dei lavoratori, è un altro elemento importante della Direttiva. .

In Italia, storicamente, la contrattazione collettiva gioca un ruolo centrale  in tema salariale, e già copre più dell’80% dei lavoratori. Come ribadito in conferenza stampa dal Commissario Ue per il lavoro Schmit, nessuno da Bruxelles imporrà all’Italia di introdurre il salario minimo, ma sulla spinta della Direttiva, il nostro paese è chiamato a rafforzare la contrattazione collettiva per lavoratori e lavoratrici che non sono tutelati dai CCNL, specie nel settore dei servizi.

Occorre sicuramente in Italia una legge sul salario minimo per i lavoratori privi di tutela e la Direttiva europea rappresenta uno stimolo per la politica ad affrontare il problema in tempi brevi. Ma un salario minimo stabilito per legge non basta da sola a contrastare la povertà dei lavoratori. La necessità è quella di un intervento complessivo sulla materia e il sistema di welfare in Italia. La priorità per il lavoro resta la riduzione del cuneo fiscale e l’eliminazione dei contratti pirata, oltre chiaramente al contrasto del fenomeno dei Working Poor, i lavoratori poveri, ovvero 3 milioni di lavoratori e lavoratrici che percepiscono salari bassi. Secondo le stime, un lavoratore su dieci in Italia versa in condizioni di povertà, e un quarto della forza lavoro occupata in Italia guadagna salari troppo bassi.

Le difficoltà di alcune fasce di lavoratori e lavoratrici sono cresciute dopo la pandemia e per l’aumento dell’inflazione e dei costi energetici, che riduce il potere d’acquisto degli stipendi già insufficienti  per una vita dignitosa.

La Direttiva sul salario minimo, pur non vincolante e accolta con toni forse troppo trionfalistici, ha se non altro avuto il merito di far tornare centrale il tema salariale e dell’importanza della contrattazione collettiva come pietra miliare del nostro sistema di welfare.

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