La fase storica che stiamo vivendo è quella che segna la frattura più profonda con le speranze ed i sogni generati dall’avvento del nuovo secolo.
Per la mia generazione, cresciuta dentro lo spirito di libertà dell’Ottantanove, si tratta di ripensarsi completamente.
Siamo chiamati alla responsabilità di capire, indagare le cause dei mutamenti travolgenti che stanno caratterizzando il nostro tempo e di cogliere la portata degli effetti.
Siamo di fronte a quella che il filosofo della politica Biagio De Giovanni ha definito la prima “crisi politica” della globalizzazione, capace di introdurre forti elementi di divisione in un mondo che il processo globale doveva unire, oltre ogni conflitto, tensione o guerra.
Dopo la caduta del Muro, la cultura riformista ha pensato, illudendosi, di aver vinto la partita. Che l’espansione del libero mercato avrebbe condotto alla piena affermazione della democrazia e ad un più diffuso grado di crescita sociale.
Processi vissuti come ineluttabili ed irreversibili e quindi da accompagnare o al più da correggere, ma non già da governare. L’arretramento della politica ha slegato il fenomeno economico dai destini delle persone. A processi economici globali non è corrisposto un processo di governance politica sovranazionale e forme di controllo democratico di dimensioni comparabili.
Questo ha preparato il terreno ai nazionalismi che si sono posti come missione quella di dimostrare che tali processi non sono dati acquisiti, ma scelte e come tali revocabili.
La società aperta, la globalizzazione dell’economia, l’integrazione europea, il fenomeno migratorio sono oggi i principali terreni nei quali sono coltivati i semi di un nuovo sovranismo che si pone come alternativa praticabile.
Pare del tutto evidente come la risposta delle forze riformiste non possa consistere in una meccanica riproposizione di paradigmi culturali ed identitari di cui esse si sono alimentate nel secondo dopoguerra. I due principali strumenti di cui la sinistra europea si è servita per perseguire i propri ideali di libertà e giustizia sociale hanno esaurito da tempo le proprie forze: lo stato-nazione ed il welfare state erano l’uno propedeutico all’altro, oggi la crisi dell’uno è conseguenza di quella dell’altro.
I limiti di tale schema sono apparsi ancora più chiari in Europa dopo il Trattato di Maastricht e l’adozione della moneta unica. La politica monetaria si centralizzava a livello comunitario e veniva sottratta alla disponibilità degli Stati membri, mentre la politica economica e fiscale restava in capo a questi ultimi. Il risultato è stato il rafforzamento delle politiche di austerity imposte, in sede intergovernativa, dai Paesi con il maggiore peso, come la Germania. Ed un’interpretazione restrittiva del Patto di stabilità e di crescita in piena recessione.
Anche il Quantitative Easing, il piano varato dalla BCE nel 2015, grazie alla lungimiranza del Presidente Mario Draghi, per promuovere una politica monetaria espansiva e contrastare la deflazione, ha sortito effetti più limitati sull’economia europea, proprio perché non accompagnato da un forte coordinamento delle politiche economiche e fiscali, soprattutto in materia di crescita e di occupazione.
Con il tempo, gli effetti della crisi economica ha allargato la forbice delle disuguaglianze e le sacche di povertà. Ad avvertirne il peso non sono state solo le fasce tradizionalmente più deboli, ma anche il ceto medio. Da questo punto di vista, l’ormai famoso grafico dell’elefante di Milanovic ci dimostra come nel ventennio 1988-2008, è la classe media occidentale ad aver subito il maggior impoverimento relativo e quindi ad essere stata la più esposta, negli anni successivi, alla crisi.
La crisi ci ha spiazzato, inutile nasconderlo. Essa però può rappresentare anche una straordinaria opportunità, per fare i conti con il nuovo secolo e le rivoluzioni che lo caratterizzano.
La rivoluzione digitale, ad esempio, ha determinato condizioni di abbondanza e di disuguaglianza al tempo stesso. Come ci spiega Enrico Moretti in “La nuova geografia del lavoro”, negli Stati Uniti, l’innovazione ha prodotto nuovi e buoni posti di lavoro, che però si sono concentrati laddove c’erano già condizioni avanzate di benessere e di istruzione. Contestualmente, i centri urbani che presentavano condizioni di partenza peggiori, nel campo dei servizi, dei saperi etc., non hanno saputo reagire alla crisi dell’industria tradizionale, creando un ecosistema adeguato ad attrarre investimenti nell’industria innovativa. Anzi, essi hanno registrato una significativa mobilità in uscita, che per lo più ha riguardato i ceti più giovani ed istruiti, che ha causato svuotamento e desertificazione.
Questo perché un processo non è virtuoso in sé. I suoi buoni esiti dipendono da come il processo è governato, dalla qualità delle politiche pubbliche che lo accompagnano.
Ci attende quindi una fase di severo impegno, rigorosa analisi e profonda comprensione cui dovranno seguire “politiche” e “politica”, soluzioni concrete e mirate dentro una cornice valoriale all’altezza dei mutamenti in atto.
E’ un percorso di ricerca teso alla costruzione di quel luogo inedito in cui far incontrare i valori di eguaglianza e di libertà con le trasformazioni che stanno cambiando le nostre vite. E’ una sfida affascinante e complessa paragonabile all’organizzazione del capitalismo nel “secolo socialdemocratico”, per usare una felice espressione del grande sociologo Ralf Dahrendorf . Una sfida in campo aperto alle forze nazionaliste e populiste, che rifugga dalla tentazione di un’adesione acritica alla globalizzazione e che, invece, ne colga le opportunità ed i limiti.
Il che significa elaborare politiche capaci di tenere insieme più libertà e più protezione. Costruire un riformismo del merito e del bisogno, delle opportunità e del contrasto alle disuguaglianze. Che sappia proporre un modello di libero scambio legato a stringenti regole di tutela degli standard sociali.
Per dirla con l’economista Irene Tinagli: «perché dobbiamo attendere che le vittime della globalizzazione siano a terra, per “vederle” e cercare di intervenire? Dobbiamo impostare “a monte” la nostra politica, mutare la sua stessa natura, per far sì che essa agisca “prima” – in senso temporale e in senso qualitativo – che le persone cadano vittime del processo di innovazione.»
Se questo è il terreno della sfida per le forze riformiste e progressiste, la dimensione della loro iniziativa non può che essere quella europea ed indirizzarsi verso due priorità: una più forte legittimazione democratica dei processi istituzionali ed una più netta e coerente distinzione delle sfere di sovranità tra Unione e Stati membri.
I due obiettivi dovrebbero essere perseguiti di pari passo, quanta più sovranità si “cede” all’Unione, tanto più potere di controllo va conferito ai cittadini. Non è più pensabile che la difesa comune, le politiche di accoglienza, la politica fiscale possano restare negli angusti perimetri statali, ma, allo stesso tempo, decisioni che incidono sulla vita dei singoli cittadini non possono essere sottratti alla formazione dell’indirizzo popolare.
Personalmente, credo che dentro questa opera ci sia lo spazio per far nascere e crescere una proposta riformista coraggiosa ed ambiziosa, in grado di collocarsi compiutamente nelle linee di confronto che si aggiungono a quelle ancora attuali di destra e sinistra.
La Brexit, la nuova Amministrazione americana, il ritorno prepotente della Russia da un lato, le vicende elettorali olandesi, francesi e tedesche dall’altro, stanno ridisegnando i termini del dibattito pubblico.
Sta alla lungimiranza ed alla intelligenza di classi dirigenti, ispirate da un pensiero nuovo, condizionarne ed orientarne gli sviluppi. Ciò nella consapevolezza che non bastano politiche giuste se esse non sono avvertite come tali dai cittadini. Un tempo, lo avremmo definito un riformismo di “popolo”.