Cosa davvero si dice in Germania sul 2% per la Difesa

L’invasione russa dell’Ucraina ha portato molti governi e movimenti politici a riconsiderare le proprie posizioni, soprattutto per quel che riguarda l’uso dello strumento militare. La Germania di Olaf Scholz è forse l’esempio più importante di questo cambio di prospettiva: dopo quasi un decennio di rinvii, scetticismo e polemiche Berlino si è finalmente impegnata ad adempiere alla cosiddetta regola del 2%. Fissata dai capi di stato e di governo dei Paesi Nato durante il summit del Galles nel 2014, il parametro impegna tutti gli stati membri dell’Alleanza Atlantica a spendere l’equivalente del 2% del proprio prodotto interno lordo in spese di Difesa.

Questo impegno politico è stato a lungo osteggiato da chi si oppone a un aumento delle spese militari. Fino al 2022, infatti, la maggior parte dei Paesi Nato non rispettava l’impegno assunto in sede internazionale. La guerra in Ucraina ha cambiato le cose: riconosciuta la concretezza della minaccia russa alla pace europea e la necessità di avere forze armate sufficientemente credibili da rendere qualsiasi aggressione militarmente impensabile, molti stati hanno deciso di portare le proprie spese militari all’obiettivo Nato.  Fra essi c’è la Germania, che per motivi storici e politici (spiegati efficacemente qui e qui) si era fino ad allora mostrata poco propensa a considerare la forza del proprio strumento militare (la Bundeswehr) come una questione prioritaria. La Zeitenwende, il “cambiamento epocale” causato dal ritorno della guerra in Europa, ha convinto perfino i socialdemocratici a cambiare atteggiamento – anche a causa di vent’anni di fallimentari trattative con Putin.

A più di un anno dallo scoppio della guerra, il cancelliere tedesco Scholz ha confermato l’impegno tedesco a raggiungere l’obiettivo 2%. Diversamente da quanto riportato in Italia, in una conferenza stampa a luglio Scholz ha detto che l’aumento strutturale delle spese militari rimane una conditio sine qua non della politica di difesa tedesca. Lo strumento per permettere ciò è principalmente il fondo speciale da 100 miliardi di euro (Sondervermögen), votato l’anno scorso dal parlamento per colmare le lacune capacitive della Bundeswehr. Dopo anni di sottofinanziamento le forze armate tedesche sono infatti prive di molti sistemi difensivi fondamentali per garantire la sicurezza della repubblica federale, da sistemi antiaerei a mezzi blindati funzionanti e perfino aerei da trasporto per rifornire le truppe schierate all’estero. 

Ma la volontà tedesca di rispettare l’impegno del 2% è anche un buon caso studio delle difficili scelte politiche che ciò comporta. Il raggiungimento dell’obiettivo è infatti messo in dubbio dalla capacità (e la volontà) tedesca di mantenere un livello adeguato di spese militari anche dopo il 2025, quando il fondo da 100 miliardi sarà ormai esaurito. I tagli degli ultimi quindici anni sono infatti stati talmente pesanti che la Bundeswehr necessiterebbe di almeno 300 miliardi di euro per recuperare un livello accettabile di preparazione. Il ministro della Difesa Boris Pistorius ha addirittura suggerito che nei prossimi anni il 2% sarà verosimilmente solo un punto di partenza, e non un limite massimo di spesa. Il risultato di quattro legislature votate all’austerity è anche questa: l’urgenza della guerra richiederebbe immediatamente spese altissime e, soprattutto, un quadro pluriennale affidabile.

Questa dimensione temporale è la vera fonte di polemiche nel dibattito tedesco. Recuperare il terreno perduto richiederà tempo, e l’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, il reclutamento di nuovi soldati, la ricostituzione degli stock di munizioni donati all’Ucraina e la creazione di una nuova divisione entro il 2025 sono tutte iniziative che hanno bisogno di un quadro finanziario chiaro nel medio termine. Ma la coalizione di governo, composta da socialdemocratici, liberali e verdi non è ancora riuscita a raggiungere un accordo su come garantire questa pluriennalità. La questione non è tanto nel merito, quanto nella forma. Questo è dovuto soprattutto all’ossessione liberale per il patto di stabilità: vista l’allergia verso la contrazione di nuovi debiti, è verosimile che i prossimi bilanci federali obbligheranno a fare scelte difficili riguardo la spesa pubblica.

I socialdemocratici temono che l’automatismo del 2% in Difesa possa aggirare il ruolo del Parlamento come istanza unica in cui vengono decise le spese federali annuali, e che vada a scapito di uscite nel sociale e in investimenti strutturali. È per questo che Scholz parla di “una media del 2%” su più anni: vuole mantenere sufficiente flessibilità impegnandosi a recuperare eventuali flessioni nel bilancio della Difesa nell’anno successivo.

Il tema di come finanziare le spese della Difesa accompagnerà il dibattito politico tedesco ed europeo per buona parte degli anni ‘20. È un’esigenza sostanzialmente accettata da tutto l’arco parlamentare e che richiederà una quadratura del cerchio: come si fa a mantenere un livello sufficiente di preparazione militare senza tagliare altre spese cruciali (come la transizione energetica, la digitalizzazione o il welfare)? Non è solo una questione di equità, ma anche di sicurezza e consenso. Uno stato che aumenta le spese militari ma taglia gli investimenti in ciò che permetterà alla propria società di prosperare nel ventunesimo secolo è più fragile e suscettibile ad aggressioni esterne. La coalizione di governo tedesca, che ha anche prodotto la prima strategia di sicurezza nazionale della storia tedesca, è ben consapevole della natura trasversale della sicurezza. Una cosa è però chiara: che ciò avvenga tramite più cooperazione europea, con una ridefinizione dei parametri di bilancio o con una razionalizzazione della spesa militare, il governo tedesco ha ormai legato la propria credibilità internazionale all’impegno del 2%.

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