L’atteggiamento della Cina sulla guerra tra Israele e Hamas: attendismo o neutralità anti-occidentale?

Chinese President Xi Jinping and Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu shake hands ahead of their talks at Diaoyutai State Guesthouse in Beijing, China March 21, 2017. REUTERS/Etienne Oliveau/Pool *** Local Caption *** Xi Jinping;Benjamin Netanyahu

Dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas lo scorso 7 ottobre, le strategie diplomatiche di Washington e Pechino si sono distinte in maniera netta. In un periodo storico segnato da un generale disimpegno internazionale, il Presidente Biden ha voluto comunque sottolineare il fermo sostegno della Casa Bianca al suo principale alleato in una regione turbolenta e ricca di avversari. Gli Stati Uniti hanno espresso un chiaro sostegno al governo di Netanyahu, sottolineando la necessità di un contrattacco militare per difendere la sicurezza nazionale di Israele, proteggere i suoi cittadini e garantire la liberazione degli ostaggi detenuti da Hamas, seppur invitando Tel Aviv a moderare la propria reazione militare. La Cina ha invece adottato una posizione più complessa e sfumata. Il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha criticato apertamente i massicci bombardamenti israeliani su Gaza, definendoli come azioni che “hanno superato i limiti dell’autodifesa”. Al contempo, Pechino ha evitato di condannare esplicitamente le atrocità commesse da Hamas contro i civili, astenendosi dall’etichettare gli eventi dell’7 ottobre come “attacchi terroristici”. La Cina, seppur seguendo una lunga tradizione anti-imperialista e anti-occidentale di sostegno alla causa palestinese sin dai tempi di Mao Tse Dong, ha oggi una posizione più temperata – di “neutralità anti-occidentale” – complicata dalle strette relazioni commerciali con Tel Aviv, soprattutto nel settore tecnologico. Eppure, la sua posizione rimane ambigua.

Per comprendere meglio l’atteggiamento di Pechino è essenziale ampliare la prospettiva e comprendere che la politica estera cinese non può essere interpretata come un riflesso di quella americana. In una regione dove la Cina storicamente non ha goduto della stessa influenza dei suoi contendenti occidentali, l’obiettivo è presentarsi come una potenza mediatrice. Sostenere incondizionatamente le posizioni radicali di uno o dell’altro attore coinvolto risulterebbe controproducente, contribuendo solo a ulteriori destabilizzazioni nella regione.

Pechino non mira a sostituire Washington nel contesto del Medio Oriente, soprattutto da un punto di vista militare. La stabilità in questa regione è di vitale importanza per la Cina, per la quale rappresenta un crocevia geografico fondamentale per i suoi interessi economici. La presenza della Palestina, che ha aderito alla Belt and Road Initiative nel 2022, assume particolare rilevanza lungo questa via che in Medio Oriente ha i suoi snodi centrali tra Teheran e Istanbul. La Cina detiene il ruolo di principale partner commerciale di molte nazioni mediorientali e costituisce il maggior acquirente di petrolio proveniente da Arabia Saudita e Iran, con il 60% del fabbisogno interno soddisfatto attraverso tali transazioni. Un esempio tangibile di questa connessione economica è rappresentato dal superamento dei 430 miliardi di dollari nel commercio totale tra la Cina e il mondo arabo nell’anno precedente.

Dal punto di vista delle relazioni politiche, la posizione apparentemente “equilibrista” della Cina sembra orientata verso il consolidamento della sua leadership nel cosiddetto “Global South”, dove la maggioranza dei Paesi esprime solidarietà nei confronti della Palestina. Numerosi governi del “Sud globale” considerano la Cina come una potenza guida, e Pechino cerca di ottenere il sostegno dei paesi in via di sviluppo per rafforzare la propria leadership. Questo approccio potrebbe mettere in discussione la “posizione morale” degli Stati Uniti nel conflitto tra Israele e Palestina, avviando un processo di pacificazione nel quale Washington non occuperebbe più la sua posizione di arbitro indiscusso. In sostanza, l’obiettivo finale è erodere la posizione degli Stati Uniti, sfruttando la simpatia dell’opinione pubblica verso i palestinesi, pur chiudendo un occhio sulle crescenti manifestazioni di antisemitismo nel dibattito politico e sui social media cinesi.

Pechino si propone di emergere dalla risoluzione del conflitto con la prospettiva di essere considerata una forza che contribuisce alla soluzione anziché istigatrice di ulteriori problematiche. Per il Presidente Xi, preservare la reputazione della Cina come leader dei Paesi in via di sviluppo, ergendosi a modello alternativo per quei popoli oppressi dai regimi occidentali, e fungendo da mediatore per risolvere le controversie, rappresenta una priorità di prim’ordine. Questa posizione sembra ben conciliarsi con l’immagine affidabile  e rispettabile che la Cina vuole dare di sé, preferendo l’utilizzo di un tono narrativo cauto all’assertività dell’azione diplomatica (wolf warrior diplomacy) dimostrata in passato da alcuni funzionari in relazione a specifiche tematiche sensibili a Pechino – Taiwan, su tutte.

Nonostante Pechino si sia limitata prevalentemente ad una serie di dichiarazioni, non intraprendendo nessuna azione concreta, la guerra in corso presenta diversi vantaggi, in una prospettiva più ampia, soprattutto nel contesto della rivalità con Washington. La situazione distrae l’attenzione degli Stati Uniti dall’Indo-Pacifico, ostacola gli sforzi della Casa Bianca per promuovere la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele e amplifica le tensioni regionali verso l’Occidente. Pur non essendo probabile che la Cina assuma un ruolo centrale nell’attuale crisi, è imperativo per l’Unione Europea assicurarsi che non diventi un elemento di “disturbo”. La polarizzazione globale attorno alla questione israelo-palestinese gioca a favore della narrativa cinese – e russa – sulla divisione tra Occidente e Sud del mondo. Interagire con la Cina nell’attuale crisi potrebbe essere cruciale nel disarticolare questo falso dualismo da cui Pechino sta traendo vantaggio.

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