L’Italia nel nuovo Mare Nostrum: visioni e strategie per il Mediterraneo che cambia

di Eugenio Dacrema (Università di Trento), Annalisa Perteghella (ISPI), Arturo Varvelli (ISPI)

 

1.Il Mediterraneo in trasformazione

Il contesto Mediterraneo in cui l’Italia è stata abituata a muoversi negli ultimi decenni sta mutando profondamente. L’incapacità ad adattarsi a tali mutazioni può costare molto al nostro paese in ambiti chiave come quello della sicurezza, dell’economia, e della gestione dei flussi migratori.

I cambiamenti strutturali che stanno avvenendo si possono riassumere in tre aspetti principali: fine dell’egemonia americana nell’area, maggiore interdipendenza e maggiore frammentazione.

La fine dell’egemonia americana. I compiti di garante della sicurezza internazionale, affidati sino a pochi anni fa essenzialmente ai soli Stati Uniti, sono stati oggi assunti anche da altri paesi. Ciò sta portando, soprattutto nella regione MENA, a una disintegrazione di fatto del “monopolio dell’uso della forza”. “Altri” attori internazionali e regionali come Russia, Iran, Arabia Saudita e Turchia hanno avviato azioni militari nell’area, talvolta lavorando dietro le quinte, talvolta, dato politicamente più sorprendente, creando coalizioni e alleanze informali. L’intervento contro lo Stato Islamico in Siria e Iraq (ISIS) non ha fatto venir meno i presupposti della “ritirata strategica” statunitense. Al contrario, le dinamiche di tale intervento hanno messo in luce il più attento e limitato utilizzo delle risorse da parte americana e una maggiore tendenza alla delega verso attori locali. Tale tendenza è apparsa già chiaramente durante l’intervento in Libia nel 2011 (riassunta nella strategia del “leading from behind”) ed è stata il presupposto della mancata azione militare contro il governo siriano di Bashar al-Assad nel 2013. L’ascesa di ISIS ha quindi costretto gli Stati Uniti, sempre più egemone riluttante, a rimandare, ma non annullare, la “ritirata” da questi quadranti. Neppure la nuova centralità dei militari statunitensi all’interno del gabinetto di Donald Trump sembra allentare questo macro-trend, che ha avuto un chiaro inizio dal secondo mandato di presidenza di George W. Bush. L’Italia, in quanto consumatore di sicurezza sotto l’ombrello atlantico ma anche come storico junior partner degli Stati Uniti nell’area, resta uno dei paesi più vulnerabili in questa tendenza.

Una regione più connessa. Mai come oggi gli equilibri geopolitici del Mediterraneo sono influenzati sia da potenze regionali sempre più assertive, sia da nuove potenze internazionali in passato scarsamente interessate alla regione come Russia e Cina. Alcune potenze regionali come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Iran hanno acquisito capacità di proiezione internazionale in grado oggi di includere l’intera area MENA, e spesso di andare oltre. Le crisi in Siria, Libia e Yemen hanno visto infatti un rinnovato protagonismo di tali potenze, le quali hanno dimostrato di essere divenute molto più determinanti delle tradizionali potenze egemoni internazionali come gli Stati Uniti nell’influenzare il corso delle crisi regionali. La crisi siriana ha visto inoltre l’intervento di potenze internazionali un tempo raramente visibili nell’area mediterranea come la Russia e, seppur più a distanza, la Cina. La Russia ha saputo fare della Siria un trampolino verso l’intera regione, dimostrando nei mesi recenti di essere in grado di giocare in modo efficace anche in altri scenari come la crisi libica e quella yemenita (per quanto sia ancora presto per misurare realisticamente il grado di tale efficacia).

Una regione più frammentata. Il Mediterraneo e il Medio Oriente hanno vissuto negli ultimi anni una molteplicità di episodi destabilizzanti. All’onda lunga dei conflitti in Afghanistan e Iraq si sono sommati i conflitti civili in Siria e Yemen, la prolungata crisi in Libia, l’evoluzione – e la restaurazione – del regime egiziano.  Ma un’analisi dei mutamenti che tenga conto solamente degli attori statuali come referenti della politica internazionale appare oggi anacronistica dato l’emergere di gruppi non-statuali o sub-statuali con rilevanti capacità di interrelazione al di fuori dei contesti nazionali. Milizie, gruppi jihadisti, tribù, minoranze trans-nazionali, città-stato, organizzazioni criminali, network di trafficanti di esseri umani, appaiono sempre più elementi centrali e attori protagonisti della politica globale. L’Italia si è chiaramente trovata ad affrontare una molteplicità di questi attori, in particolare nel contesto libico.

 

2. Nuovi rischi e nuove opportunità per l’Italia

Le nuove vulnerabilità strutturali. A causa dei mutamenti descritti nella sezione precedente, l’Italia si trova oggi costretta a passare in rassegna in maniera più sistematica la propria politica estera, rivedendo i tradizionali parametri d’azione all’interno dei quali si è mossa negli ultimi vent’anni.  Occorre abbandonare l’illusione che i fenomeni di crisi e instabilità che hanno contraddistinto l’area e avuto influenze sull’Italia nell’ultimo quinquennio siano temporanei. In buona parte tali fenomeni sono infatti determinati da cause strutturali, e solo talvolta accelerati da episodi contingenti come crisi politiche o militari. I flussi migratori, per esempio, dipendono solo in parte dall’instabilità e dai conflitti dell’area e molto di più da dinamiche più profonde che spingono parte dei giovani dell’Africa e di altre aree del mondo a spostarsi verso l’Europa. A loro volta, le organizzazioni terroristiche jihadiste, qualunque forma esse assumano, sono il sottoprodotto di dinamiche sociali di lungo periodo i cui effetti difficilmente potranno esaurirsi nel breve. Questo vale sia per quanto riguarda i fenomeni di radicalizzazione e terrorismo in Medio Oriente (il settarismo sciiti/sunniti, il conflitto interno al mondo sunnita per la leadership,  la marginalizzazione politica di vasti gruppi sociali in diversi paesi MENA, il fallimento dell’ “islam Politico” e la sua deriva radicale ove oppresso, ecc.) sia per quelli che avvengono in Europa (la questione identitaria delle seconde generazioni musulmane, la polarizzazione sociopolitica di molti paesi occidentali, o questioni economico-sociali più ampie).

L’Europa e il rischio “stato cuscinetto”. La risposta ideale per una media potenza geopoliticamente vulnerabile come l’Italia sarebbe sostituire la decrescente presenza politica degli Stati Uniti nell’area con una maggiore presenza “compensatrice” dell’Unione Europea. Tale soluzione si è però rivelata in questi anni spesso impraticabile a causa delle difficoltà che l’Europa sta attraversando nel delineare un abbozzo di politica estera comune in una fase delicata e per certi versi disgregante (Brexit, Catalogna, populismi anti-europei, ecc.). Il richiamo dell’Italia al ruolo europeo nell’area MENA è stato costante ma è sembrato talvolta un paravento per scaricare responsabilità verso un livello superiore a quello nazionale. In particolare, i membri dell’Unione Europea si sono rivelati incapaci di delineare un’agenda comune con l’obiettivo di un vero burden sharing sulla questione migratoria.  È inoltre preoccupante dal punto di vista italiano l’asimmetricità di come la questione della rotta balcanica dei rifugiati dalla Turchia sia stata efficacemente trattata a livello europeo mentre la rotta mediterranea sia stata ignorata e relegata a una questione nazionale italiana. L’emergere di tali dinamiche mette costantemente l’Italia di fronte al rischio di trasformarsi in un oneroso e scomodo stato-cuscinetto, sul quale gli stati del nord dell’Unione fanno ricadere interamente la responsabilità e gli oneri della gestione delle problematicità dell’area mediterranea.

La necessità di acquisire una visione strategica. Nell’attuale contesto internazionale, al nostro paese è richiesta una nuova capacità di salvaguardia degli interessi nazionali attraverso l’intervento della diplomazia, ma anche con l’utilizzo dello strumento militare. In questi ultimi anni la diplomazia italiana ha dimostrato almeno in parte di aver compreso il cambio di passo necessario, ma determinanti trasformazioni in questa direzione devono ancora essere compiute. Nel lungo periodo di egemonia americana nella regione, l’azione italiana si è limitata infatti a reazioni contingenti a crisi e tensioni momentanee, mentre la gestione e la visione di lungo termine venivano esternalizzate alla potenza egemone e all’Alleanza Atlantica. Nel mutato quadro odierno è però necessario che l’azione italiana inizi a essere costruita attorno a una visione nazionale ben delineata degli obiettivi di lungo termine, una visione elaborata direttamente dall’Italia con il supporto, quando possibile e su terreni di interesse comune, dei partner europei. Per quanto infatti l’Italia sia una media potenza il cui peso politico è in declino se comparato relativamente ad altre potenze globali emergenti, nel Mediterraneo essa è ancora potenzialmente una potenza leader a livello economico, politico e militare, in grado di poter esercitare un notevole livello di influenza. Il rischio di una delega in bianco all’Italia da parte europea della gestione delle problematicità derivanti dalle crisi mediterranee può essere quindi trasformato in una opportunità per poter giocare un ruolo chiave e indipendente nella regione, costringendo, quando necessario, i partner europei a prendere atto delle politiche italiane.

 

3. Una visione di lungo periodo per l’Italia

Questa sezione propone alcuni tasselli di quella che potrebbe essere una visione organica di lungo periodo per l’Italia nel Mediterraneo che ponga al centro l’obiettivo di una regione stabile e capace di promuovere sviluppo economico ed umano. Venuta meno l’egemonia americana, l’Italia deve elaborare strategie specifiche nei diversi scenari di interesse dell’area che puntino allo stesso obiettivo. La scarsa cooperazione riscontrata finora a livello europeo costringe oggi l’Italia a elaborare una strategia primariamente autonoma, che però non deve perdere di vista l’obiettivo finale di una azione europea unitaria, la sola in grado di pesare in modo determinante nel lungo periodo.

 

Libia: rafforzare il processo politico a guida ONU. L’iniziativa del presidente francese Macron del luglio scorso si inserisce, alimentandola ulteriormente, in una spirale di interventi unilaterali da parte delle potenze esterne che indeboliscono l’iniziativa delle Nazioni Unite, creando di fatto un processo politico parallelo che bypassa o detta i tempi a quello multilaterale guidato da Ghassan Salamé. In realtà diverse azioni diplomatiche che appaiono assai poco coordinate si sono susseguite una via l’altra contribuendo a reiterare il risultato di un gioco a “somma zero”. La previsione di nuove elezioni nel 2018 senza aver portato a termine una vera fase costituente della Libia (quale forma di governo? Quale redistribuzione delle risorse? Quale livello di autonomia degli enti locali? ecc.), rischia di creare una nuova fase di polarizzazione politica e militare come avvenuto dopo le elezioni del 2012 e del 2014, avvantaggiando il generale Haftar. Sul piano internazionale l’Italia deve continuare ad operare come federatore dei diversi interessi internazionali facilitando un ritorno alla centralità dell’iniziativa ONU. Relativamente alla questione dei migranti, a partire dal mese di luglio una più decisa azione del Governo di Accordo Nazionale (governo formato in seguito all’accordo sponsorizzato dalle Nazioni Unite, conosciuto con l’acronimo inglese GNA) di Serraj e di quello italiano ha permesso una rapida diminuzione dei flussi di migranti dalla costa della Tripolitania, ma al contempo ha acceso un dibattito sull’opportunità di trattare direttamente con milizie e capi locali. La logica di trattare con le milizie in quanto detentori di reale potere in Libia non è di per sé errata. Se la comunità internazionale vuole che alle parole dei negoziati conseguano i fatti è logico che le milizie detentrici del potere reale sul terreno debbano avere un ruolo nelle trattative. Guardando al problema migratorio con molto realismo, è chiaro che, in un contesto di mancato monopolio dell’uso della forza, le milizie o le comunità che traggono sostentamento dai traffici illeciti li interromperanno solamente se incentivati da un reddito alternativo equivalente o superiore. È importante però che vengano messi alcuni vincoli stringenti perché non si cada in una dinamica di ricatto finendo per finanziare milizie indiscriminatamente o che si arrivi a ritorsioni da parte di milizie escluse generando conflitti locali e nuova instabilità. Il GNA dovrebbe chiedere la collaborazione delle milizie locali che sono disposte a 1) sostenere un nuovo governo, prodotto di una revisione del processo politico libico e 2) essere incorporate in una rinnovata forza libica armata professionale. Sostanzialmente, il GNA dovrebbe essere messo nelle condizioni di rafforzarsi, e non di indebolirsi, da questo processo. L’intera vicenda ha aperto inoltre la questione delle modalità di gestione del flusso migratorio e del rispetto dei diritti umani dei migranti in luoghi come la Libia, soprattutto nel caso, come accaduto in questi mesi, che le partenze vengano bloccate dagli attori sul terreno. La questione è seria e richiede una risposta altrettanto seria che non può essere la semplice richiesta di lasciare che i traffici di esseri umani riprendano come in passato. Un ripensamento strutturale delle modalità di accesso all’immigrazione verso l’Europa, i cui contenuti esulano dagli obiettivi di questo documento, deve essere quindi alla base del dibattito. Nel frattempo, l’Italia ha il fondamentale dovere, finora colpevolmente ignorato, di sorvegliare e monitorare il trattamento dei migranti in Libia, anche imponendo questo aspetto come condizione nelle trattative con le milizie e il GNA.

 

La ricostruzione siriana

Per quanto la risoluzione del conflitto civile siriano sia oggi un processo che si gioca a tavoli in cui l’Italia da sola difficilmente può riuscire a costruire una influenza (e lo stesso vale per l’Europa, non avendo essa asset militari sul terreno in grado di esercitare influenza diretta sugli attori coinvolti), certamente lo stato della Siria post-conflitto rappresenta una sfida che riguarda molto da vicino gli interessi italiani, così come quelli di altri attori chiave europei come Germania e Francia. Essa può quindi costituire un terreno comune per costruire una azione europea concertata in grado di incidere nel lungo periodo.

In particolare, l’Italia e gli altri paesi europei hanno un interesse primario nel promuovere una risoluzione post-conflitto che favorisca il ritorno consensuale della maggior parte dei profughi siriani (dall’Europa, ma anche da paesi limitrofi come Libano, Turchia e Giordania) e una pacificazione duratura dell’area in grado di disinnescare la proliferazione di gruppi estremisti. Tra le diverse ipotesi di assetto post-conflitto oggi sul tavolo, quella di una decentralizzazione dello stato siriano che garantisca sacche territoriali “sicure” per il ritorno dei profughi sotto la garanzia di potenze regionali e internazionali appare oggi la più realistica per la realizzazione di tali obiettivi. L’Europa ha inoltre dalla propria parte il fatto di essere tra le poche realtà internazionali di primo piano dotata sia di risorse sia di volontà politica per contribuire significativamente alla ricostruzione della Siria. La leva finanziaria, per quanto poco incisiva durante il conflitto, può infatti diventare determinante nel post-conflitto e incontrare l’interesse trasversale di numerosi attori coinvolti come Russia, Turchia e monarchie del Golfo.

 

Egitto: la fragilità dietro la dittatura

Se, da una parte, paesi come l’Egitto, così come altre autocrazie della regione, sono spesso partner diplomatici imprescindibili in scenari di primaria importanza per l’Italia (la crisi libica, la lotta al jihadismo internazionale, e la gestione dei flussi migratori, ecc.) e partner economici di eguale importanza per le imprese italiane e per i nostri approvvigionamenti energetici, dall’altra, i rapporti bilaterali con questo tipo di regimi devono essere gestiti con un occhio attento alla loro stabilità di lungo periodo. Gravi episodi come la continua repressione degli oppositori in Egitto, la repressione dei movimenti civili e di qualunque forma organizzata di contestazione interna non rappresentano solo gravi violazioni dei diritti umani e civili a cui l’Italia deve sapersi opporre in virtù dei suoi valori costituzionali. Essi rappresentano soprattutto i sintomi di una grave debolezza interna di regimi come quello egiziano, spesso malcelata da una immagine di apparente stabilità. I rapporti con paesi come l’Egitto devono quindi essere trattati con il giusto grado di cinismo diplomatico. L’engagement con tali regimi deve essere portato avanti in ambiti mirati e precisi che rappresentano interessi vitali per l’Italia, ma non devono essere trasformati in perni di lungo periodo per la diplomazia italiana. In primo luogo essi sono infatti una continua fonte di rischio e di violazioni a danno dei propri cittadini e spesso anche degli stranieri (come l’arresto, la tortura e l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni hanno tristemente dimostrato). Dall’altra, dovendo impiegare gran parte della propria attenzione e delle proprie risorse alla securitizzazione interna ed essendo soggetti a possibili sollevazioni e instabilità, tali regimi rappresentano partner altamente inaffidabili in grado di compromettere gravemente, in caso di crisi, anche gli interessi italiani.

Per un’azione più organica verso questi paesi è quindi necessaria prima di tutto una politica unitaria della Ue. Interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e alla tutela dei diritti umani e della dignità delle persone, al fine di continuare ad affermarne l’importanza e la priorità anche, per esempio, nell’Egitto di oggi, non hanno solamente un valore simbolico, ma contribuiscono, seppure molto gradualmente, a creare un regime politico più inclusivo, aperto e resiliente a repentini cambiamenti.

 

Iran: proseguire sulla strada della “normalizzazione”

L’azione politica del nostro paese nei confronti dell’Iran si è posta nel solco dell’azione multilaterale che nel luglio 2015 ha portato alla conclusione dell’accordo sul nucleare con Teheran (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA). Pur non essendo parte del gruppo P5+1 (i paesi che hanno negoziato l’accordo: Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania), l’Italia ha ampiamente supportato il processo negoziale e ha manifestato l’interesse a riprendere il dialogo con l’Iran. Una vicinanza storica, quella tra Iran e Italia, che si è manifestata ad esempio nella decisione da parte di Rouhani di scegliere l’Italia come primo paese europeo per una visita ufficiale (gennaio 2016).

La politica iraniana del nostro paese rischia di essere messa sotto pressione dal nuovo approccio muscolare adottato dagli Stati Uniti di Trump nei confronti di Teheran. Un approccio, questo, che rischia di creare delle crepe profonde nell’alleanza transatlantica, dal momento che tutti i paesi europei sono compatti nel difendere l’accordo e nel voler proseguire la cooperazione con l’Iran.

In questo contesto, l’Italia dovrebbe dimostrarsi capace di perseguire una politica estera autonoma rispetto agli Stati Uniti, agganciandola a quella europea. Concretamente, ciò si dovrebbe tradurre in un deciso sforzo di salvaguardia del JCPOA. Per farlo, occorre mettere in atto a livello europeo dei meccanismi legali, politici ed economici che permettano di schermare le imprese europee da eventuali nuove sanzioni statunitensi. A livello nazionale, è invece indispensabile che il governo sostenga e stimoli l’azione di garanzia di Cassa Depositi e Prestiti, indispensabile per spingere le imprese italiane a sfidare l’incertezza dovuta al rischio di snapback delle sanzioni.

Ciò non significa “abbandonare gli Usa”: l’Italia dovrebbe semmai utilizzare il proprio storico ruolo di partner per persuadere la nuova amministrazione americana circa la necessità di salvaguardare il JCPOA. Tale posizione non è infatti volta a giustificare le posizioni di politica estera iraniane, spesso fonte di instabilità e tensioni soprattutto nella regione mediorientale, ma a creare un processo virtuoso in grado di tessere e intensificare rapporti di interdipendenza economica che nel lungo termine influenzino e “normalizzino” i calcoli dietro alle scelte di politica estera di Teheran.

 

Rischi e opportunità dei paesi del Golfo

Le monarchie del Golfo Persico attraversano in questi anni un periodo di profonda trasformazione. Il crollo dei prezzi petroliferi, che appare sempre più di lungo periodo, e i profondi programmi di riforma attuati soprattutto dall’Arabia Saudita rendono questi paesi allo stesso tempo potenziali fonti di opportunità ma anche di rischio. Soprattutto il piano Saudi Vision 2030 lanciato dall’Arabia Saudita prevede infatti un programma senza precedenti di apertura economica e politica del paese verso il resto del mondo, che può presentare numerose opportunità anche per l’Italia. D’altra parte, a questi piani ambiziosi si accompagnano rischi concreti di destabilizzazione dovuti ai numerosi ostacoli strutturali e shock economico-sociali che la loro attuazione comporta, nonché un rinnovato avventurismo in politica estera che ha reso paesi come l’Arabia Saudita o gli EAU, al pari dell’Iran, loro principale rivale regionale, fonti più di rischio che di stabilità nella regione. È importante pertanto che l’Italia sappia intensificare i rapporti sul piano prettamente economico, incoraggiando quando possibile il cammino di riforme interne intrapreso da alcuni di questi paesi, ma evitando di farsi coinvolgere sul piano politico in diatribe regionali di lungo termine in cui non può avere nessuna o quasi voce in capitolo.

 

Turchia: proseguire il dialogo europeo nonostante Erdogan

Dopo il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 e il referendum costituzionale dell’aprile di quest’anno, la Turchia attraversa una fase segnata dalla accentuazione della presa di potere da parte del presidente Erdogan e del partito Giustizia e sviluppo (Akp).  Questa fase è segnata da un paradosso: se da un lato il presidente Erdogan ha varato una serie di misure repressive e ha cercato – e ottenuto – una modifica dell’ordinamento costituzionale in nome di una esigenza di ordine e stabilità, dall’altro lato tutto ciò si è tradotto in una sostanziale instabilità. Al di là delle misure rigide varate dallo stato turco, il livello di polarizzazione politica è elevato, e le restrizioni adottate dal governo nei confronti di oppositori politici e dissidenti rischiano di trasformarsi in un pericoloso boomerang per il governo stesso. In questo contesto, si è assistito a un ritorno del dibattito sulla necessità o meno di sospendere il processo di adesione della Turchia all’Unione europea, sulla scia dell’erosione dei parametri democratici che mettono in serio dubbio la garanzia del rispetto dei criteri di Copenaghen, soprattutto del criterio politico.

Eppure, la Turchia rimane un paese cruciale per l’Unione europea e per l’Italia, non ultimo per il suo ruolo di cerniera tra mondo europeo e mondo orientale. L’economia turca, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, rimane una delle più performanti della regione e un partner economico dal potenziale enorme. In questo senso, il nostro paese dovrebbe farsi promotore in sede europea della necessità di intraprendere con Ankara un dialogo deciso sul quale rilanciare il processo di adesione in cambio di una revisione delle dure misure adottate in questi mesi. La linea dura, infatti, non giova a nessuno: non giova all’Europa, che perderebbe un potenziale partner (e membro, in prospettiva futura) strategico, e non giova agli stessi cittadini turchi, gran parte dei quali non sono ostili all’Europa e all’Occidente per partito preso e anzi condividono molti tratti culturali con l’Europa, e soprattutto l’Europa mediterranea di cui l’Italia è la principale esponente. In questo senso, chiudere totalmente alla Turchia significherebbe fare il gioco di Erdogan, dandogli modo di proseguire nella sua narrazione del senso di accerchiamento. Al tempo stesso, sono necessarie decisione e fermezza nel chiedere ad Ankara il ritorno su posizioni più rispettose dello stato di diritto.

 

Nuove e antiche rivalità della regione: la capacità di restare al di sopra delle parti

A livello più regionale, gli ultimi mesi paiono caratterizzati da un processo di costituzione e rovesciamento delle alleanze che è destinato a durare anche nei prossimi anni. Ne sono un esempio il quieto avvicinamento tra Israele e monarchie del Golfo, o il capovolgimento di posizione dell’amministrazione americana rispetto all’accordo sul nucleare iraniano. Se, in ogni congiuntura storica, sono gli interessi e le contrapposizioni ideologiche endogene al sistema a determinare il disegno delle amicizie e delle inimicizie, in un sistema come quello attuale l’indeterminatezza dei primi trascina con sé l’indeterminatezza delle seconde. Sul piano regionale gli Stati Uniti di Donald Trump, allineandosi ad Arabia Saudita, Egitto e Israele, nel rinnovato tentativo di contenimento dell’Iran, stanno contribuendo a soffiare sul fuoco di una concorrenza regionale che ha certamente connotazioni originarie più geopolitiche che religiose e settarie. La difficoltà dell’amministrazione americana nel comprendere pienamente le ricadute del suo riallineamento in Medio Oriente, rischia di scatenare una serie di reazioni contro-producenti: la crisi tra Qatar e gli altri paesi del Golfo ne rappresenta solo la prima e più evidente conseguenza. Queste evoluzioni sembrano spingere alcuni paesi europei come la Francia a cercare un rapporto privilegiato con questo fronte. In realtà, questa scelta nasconde insidie di lungo termine. Innanzitutto, l’Italia ha bisogno di avere buone relazioni, a partire da quelle economiche, con molti degli attori dell’area, dalla Turchia al Qatar, dall’Egitto all’Arabia Saudita. L’Italia, presentandosi come attore determinante nel bacino mediterraneo, è nella posizione, politica ed economica di poter contribuire a essere un elemento di decompressione di queste rivalità, in particolare dal momento che a trovarsi in contrasto sono storici partner regionali. Questa politica contribuirebbe a un contenimento delle frizioni e dei contrasti all’interno dell’area mediterranea e mediorientale che hanno un’importante incidenza sull’instabilità di diversi paesi.

 

Un perno per una visione di lungo periodo: la Tunisia 

Nel lungo periodo l’interesse primario per l’Italia è la promozione di una duratura stabilità politica, sociale ed economica nell’area mediterranea. Ciò può avvenire solo attraverso la promozione progressiva di sistemi politici quanto più inclusivi, che siano in grado di rilassare le tensioni sociali e creare un clima favorevole allo sviluppo economico di cui l’Italia per chiari motivi storico-geografici sarebbe tra le prime beneficiarie. Naturalmente, tale processo dipende primariamente da fattori endogeni che l’Italia e l’Europa possono solo cercare di appoggiare e incoraggiare. Tali fattori endogeni hanno dimostrato di essere presenti in occasione dei sommovimenti sociali che hanno interessato la regione nel 2011. Laddove infatti tali sommovimenti sono riusciti a trovare terreno fertile si sono trasformati in virtuosi processi di riforma politica che hanno nella Tunisia l’esempio più lampante. La capacità che il paese nordafricano ha avuto di portare a termine con successo la transizione democratica nonostante terrorismo e crisi economica, e la capacità dimostrata di poter far convivere con successo in un sistema democratico partiti islamisti con partiti secolari spesso in alleanza tra loro non ha ricevuto sufficiente attenzione da governi e media internazionali. Nonostante dopo il 2011 la Tunisia sia infatti diventata uno straordinario esperimento di democrazia senza precedenti nel mondo arabo, l’Italia e l’Europa hanno perlopiù ignorato le difficoltà di questo paese per dedicarsi totalmente a scenari regionali più importanti nel breve e medio termine. Questo è un errore che Italia ed Europa rischiano di pagare caro, soprattutto nel caso di una grave destabilizzazione della giovane e ancora fragile democrazia tunisina che potrebbe comportare una nuova ondata di immigrazione incontrollata e radicalizzazione. Al contrario, la Tunisia, opportunamente sostenuta soprattutto dal lato economico, ha la chance di trasformarsi nella locomotiva di cambiamento positivo all’interno della regione. L’Italia dovrebbe per questo farsi promotrice sia a livello bilaterale sia a livello europeo di speciali programmi di cooperazione e sostegno, e favorirne il consolidamento democratico aiutando Tunisi ad affrontare i nodi principali che ancora bloccano il pieno sviluppo socioeconomico, come lo sviluppo delle aree interne e delle periferie urbane, oggi ancora preda di povertà e radicalizzazione. Sulla stessa linea l’Italia dovrebbe inoltre coltivare e favorire le relazioni con altri paesi che hanno dimostrato in passato la volontà di portare avanti ambiziosi programmi di riforma come Marocco e Giordania, e con un paese complesso ma strategico come il Libano, dove stazionano inoltre i soldati italiani della missione UNIFIL. Con questi paesi, di medie-piccole dimensioni e relativamente più liberali e stabili (fatta eccezione per il Libano), l’Italia può esercitare un alto grado di influenza sul piano bilaterale su obiettivi comuni di lungo termine.

 

Una rafforzata capacità di proiezione

Una nuova strategia politica di lungo termine deve necessariamente essere accompagnata a una rinnovata capacità di proiezione diplomatica, economica e culturale dell’Italia nella regione mediterranea. L’Italia in questo senso parte avvantaggiata essendo già uno dei partner economici principali di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ed avendo storicamente relazioni socio-culturali intense con l’intera regione. In questi anni, però, le risorse utilizzate per promuovere l’immagine e le attività italiane nella regione (come in altre regioni del mondo) hanno visto una contrazione notevole, sia in termine assoluti sia in termini relativi ai rinnovati sforzi di altre potenze europee come Germania e Francia. A fronte di una riduzione complessiva dei fondi per la proiezione internazionale, è quindi necessario che il nostro paese sia in grado di razionalizzare le risorse a disposizione indirizzandole verso quelle zone del mondo, come il Mediterraneo, che sono di primaria importanza per gli interessi italiani. L’Italia deve infatti puntare a tenere testa alle altre maggiori potenze europee soprattutto in regioni chiave come quella mediterranea.

 

4. Conclusioni

Il Mediterraneo di oggi è una regione sempre più interconnessa, frammentata e priva di quell’influenza egemone statunitense che l’aveva caratterizzata nei decenni passati. Questa nuova situazione presenta certamente seri rischi per il nostro paese, anche a fronte di una riluttanza europea a condividere con l’Italia responsabilità ed oneri della gestione di tali rischi. A fronte di tale contesto, l’Italia deve saper rinnovare la propria capacità di elaborazione diplomatica uscendo dalla logica di semplice gestione dell’esistente che ci ha sempre visto contare primariamente su Stati Uniti e Alleanza Atlantica per l’elaborazione delle strategie di lungo termine. Progressivo ritiro americano e inazione europea ci impongono quindi la responsabilità di tornare a elaborare autonomamente le nostre strategie di lungo termine e di affacciarci a ogni paese e ogni area di crisi della regione avendo un quadro preciso degli obiettivi che vogliamo e non vogliamo conseguire nel lungo termine, e non solo nel breve. Una rinnovata capacità dell’Italia di farsi parte proattiva nell’elaborazione della politica mediterranea può diventare anche un fattore centrale per conseguire maggiore influenza e capacità di coinvolgimento verso i partner europei. Un’azione unitaria europea nel Mediterraneo deve essere l’obiettivo centrale dell’elaborazione strategica dell’Italia, e di questa azione unitaria il nostro paese deve puntare a diventare uno dei principali luoghi di elaborazione.

In questo documento abbiamo presentato una ipotesi di visione di medio e lungo termine per l’Italia, suddivisa per regioni e paesi di particolare interesse. Per quanto aspetti e dettagli di questa visione siano certamente suscettibili di dibattito e modifica, la necessità dell’Italia di farsi agente proattivo nel Mediterraneo deve, a nostro parere, diventare un punto condiviso della politica estera di ogni forza politica italiana.

 

Il presente paper rappresenta il contributo degli autori per la conferenza “La politica estera ed europea dell’Italia: le proposte del PD”. Esso non impegna in alcun modo il Partito e il suo programma. 

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