Ucraina: miti e limiti delle sanzioni alla Russia

Di Cono Giardullo*

Qualche mese fa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel presentare il programma di governo alle Camere, prima del voto di fiducia, ha affermato che v’era un rischio di “mortificazione della società civile”, se non si fossero riviste subito le sanzioni. In realtà, le misure restrittive colpiscono banche e oligarchi, individui e società della Federazione Russa che hanno messo a repentaglio lo status quo sui confini europei, faticosamente raggiunto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Negli ultimi mesi, in Italia, le sanzioni, e anche il conflitto in Ucraina, sono stati oggetto di molta disinformazione, su cui è necessario soffermarsi.

Con riguardo alle sanzioni, tutto comincia a ridosso delle proteste dell’Euro-Maidan a Kiev. Il 3 Marzo 2014, il Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea (UE) decise di sospendere la preparazione del Summit dei paesi del G8, si diede così il via a una lunga serie di misure restrittive adottate dall’UE, al fine di rispondere alla destabilizzazione dell’Ucraina e alla successiva annessione illegale russa della Crimea.

Il sistema delle misure restrittive messo in piedi è complesso. Esso include misure diplomatiche, quelle individuali verso persone e entità ree di aver compromesso l’integrità territoriale ucraina, ma anche restrizioni alle relazioni con la Crimea e Sebastopoli per le società con sede registrata nell’UE.

Le misure più discusse in Italia, però, sono senz’altro le sanzioni economiche riguardanti gli scambi con la Russia in settori economici specifici. Dal marzo 2015, si è deciso di vincolare il regime alla piena attuazione degli accordi di Minsk, l’unico testo che in principio mette d’accordo tutti gli attori in gioco e le istituzioni internazionali per la risoluzione del conflitto in Ucraina dell’Est.

Questa serie di sanzioni è prorogata ogni sei mesi, e attualmente sono in vigore fino al 31 gennaio 2019. Esse limitano l’accesso ad alcune banche e società russe ai mercati dei capitali primari e secondari dell’UE; stabiliscono il divieto di esportazione dei beni a duplice uso per scopi militari in Russia; sanciscono il divieto di esportazione/importazione delle armi e limitano l’accesso russo a determinati servizi e tecnologie sensibili nella produzione del petrolio.

Queste ultime sanzioni hanno messo a dura prova i rapporti commerciali con i paesi europei. L’Italia, che ancora oggi permane il terzo partner commerciale della Russia nell’Unione Europea, dopo Germania e Olanda, ha ridotto le sue esportazioni da un massimo di 10.771 miliardi di euro nel 2013, prima della crisi in Ucraina, a un minimo di 6.690 miliardi nel 2016. Questo calo è stato anche il frutto dell’embargo che Mosca ha imposto su una lista importante di prodotti agroalimentari come reazione alle sanzioni europee. Ma le misure restrittive applicate da entrambi i lati non sono state il solo motivo del declino. Infatti, secondo i nostri diplomatici a Mosca, la crisi economica e la svalutazione del rublo sono stati i veri responsabili del calo, considerato che la capacità di spesa dei russi si è ridotta. La crisi è anche attribuibile al prezzo basso del petrolio in questi anni, che secondo il Carnegie Moscow Centre influisce direttamente o indirettamente sul 70% circa del Pil russo.

Ma la crisi commerciale tra i due paesi sta rientrando. Già nel 2017 l’export italiano verso la Russia si è attestato sui 7.982 miliardi, +11% rispetto al 2016 (in particolare, +19% alimentare; +17.5% abbigliamento per citare due categorie spesse menzionate da chi lamenta il disastro dei rapporti commerciali). Anche l’import dalla Russia si attesta ora sui 12.303 miliardi di euro, +16% rispetto al 2016. Il primo semestre 2018 ha già registrato un lieve incremento (+2.5%) dell’interscambio commerciale. L’attuale governo che ha fatto della revisione, leggi ritiro, del sistema delle sanzioni un baluardo della politica italiana verso la Russia non ha mai accennato al fatto che ci sia una ripresa, e che i rapporti siano tali anche a causa delle contro-sanzioni russe. Nonostante gli annunci del ministro Salvini sulla necessità di “passare dalla parole ai fatti sulla revoca delle sanzioni”, tutte le misure sopra menzionate sono state estese.

 

Il conflitto nell’Est senza sbocchi apparenti

Nel frattempo, dal 2014 ad oggi il conflitto nel Donbass tra le forze separatiste delle autoproclamate repubbliche del popolo di Donetsk e Lugansk, supportate dalla Russia e le forze filo-governative ucraine, ha provocato ben oltre 10.000 vittime, di cui oltre 3.000 civili. Anche le violazioni del cessate il fuoco rimangono ancora nell’ordine delle centinaia, talvolta migliaia al giorno.

Sin dal 2016, molti analisti hanno sperato che un nuovo governo o un leader rieletto appartenente al Formato Normandia (la principale piattaforma di discussione politica tra i Leader e i Ministri degli Esteri di Ucraina, Russia, Francia e Germania, nda), potesse dare il via alla risoluzione del conflitto. Invece nonostante le elezioni tedesche del 2016, quelle francesi del 2017, e in ultimo le russe dello scorso marzo, le discussioni stagnano.

Le tinte risultano ancora più fosche quando si pensa che l’Ucraina affronterà il prossimo anno le elezioni presidenziali e parlamentari, e che un candidato Presidente pronto ad accettare qualsiasi sorta d’accordo con Mosca non avrebbe alcuna chance di vincere. Infine, l’uccisione del leader dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk Aleksandr Zakharchenko lo scorso 31 Agosto ha ulteriormente posticipato – come dichiarato dal ministro russo Lavrov – nuove possibilità di un dialogo.

Anche l’idea di una missione di peacekeeping da parte delle Nazioni Unite nell’Est del paese sembra svanire. La proposta presentata dall’Ucraina nel 2015, e verso la quale un anno fa il presidente Putin aveva espresso una qualche apertura, è ormai a uno stallo. Il tentativo era stato portato avanti egregiamente da una serie di incontri tra l’inviato di Mosca Vladislav Surkov e il rappresentante speciale di Washington Kurt Volker, che avevano discusso una bozza di mandato e avevano raggiunto l’accordo su alcuni punti. Dallo scorso inverno, però, non si sono avuti altri incontri.

Come se non bastasse, le repubbliche separatiste hanno indetto nuove elezioni l’11 Novembre prossimo. Anche nel caso in cui venissero posticipate, come già successo negli scorsi anni, l’Unione Europea ha voluto chiarire che questo tipo di consultazioni sarebbero contrarie allo spirito degli accordi di Minsk – al cui punto 4 si legge “una volta avvenuto il ritiro delle armi pesanti, avvio di un dialogo sulle modalità da seguire per lo svolgimento di elezioni locali nel Donbass, in accordo con la legislazione ucraina” – e che quindi servirebbero solo a ostruire ulteriormente il processo di pace.

 

Cosa può fare l’Italia

Visto il già piuttosto lieve peso specifico europeo nelle negoziazioni, l’Italia non ha grandi spazi di manovra.

L’anno scorso avevamo provato a immaginare qualche passo che il nostro paese avrebbe potuto intraprendere. Qui di seguito un aggiornamento.

 

  • Anziché gridare all’abolizione delle sanzioni e rischiare di minare la credibilità italiana in Europa, il governo Conte dovrebbe perorare lo storico ruolo di mediatore dell’Italia tra la Russia e l’Ovest, e proporre un rinnovato dialogo sulla questione della Crimea e delle repubbliche separatiste. Al contrario, le interviste del ministro Salvini che continua a legittimare l’annessione illegale della Crimea, e le visite nella penisola o nelle repubbliche separatiste non fanno che inimicarci Kiev.

 

  • Durante la Presidenza italiana OSCE per l’anno 2018, l’Italia avrebbe dovuto puntare al rafforzamento della propria posizione nei negoziati riguardanti la crisi ucraina, quantomeno attraverso un maggior coordinamento con Francia e Germania a ridosso delle riunioni del Formato Normandia. Sull’occasione persa è sembrato pesare sia il cambio del Ministro degli Esteri, che rappresenta la Chairperson in Office dell’Organizzazione durante i dodici mesi di presidenza, e può permettersi di stilare un’agenda che possa dargli anche un risalto personale, come mostrò bene il cancelliere Kurz nel 2017. Il ministro Moavero Milanesi ha ancora l’ultimo trimestre della presidenza a disposizione e potrebbe approfittare dello scarso livello di interazione tra le parti per riavvicinarle.

 

  • Nel caso del conflitto nel Donbass, le sanzioni sono finalizzate all’implementazione degli accordi di Minsk. Per renderle più efficaci si propone una discussione con eventuale rinnovo delle sanzioni più frequente (trimestrale) rispetto ai termini attuali (semestrale) e la revoca di alcune tra esse ogni volta che singole previsioni degli accordi vengano rispettate. Come recentemente affermato dall’ex ambasciatore americano a Mosca ed ex consigliere di Obama, Michael McFaul, le sanzioni dovrebbero essere implementate in risposta a concrete azioni russe o azioni future, cosicché una sanzione possa esser tolta ogni qualvolta la Russia torni sui suoi passi. Oggi, infatti, è difficile per i dirigenti del Cremlino capire cosa debbano fare esattamente per allievare le sanzioni.

 

 

*Ricercatore associato dell’area Europa orientale ed Eurasia dell’Istituto Affari Internazionali

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