Il fenomeno Trump e il Weltschmerz d’America

Otto anni fa di questi tempi ci preparavamo all’appuntamento con la storia. Nel novembre 2008 l’America impaurita dalla crisi economica e tramortita dalle difficoltà della guerra al terrorismo su scala globale, si preparava a eleggere non solo il suo primo presidente afroamericano ma anche e soprattutto il candidato del “change”, dell’”yes we can”, un avvocato idealista e convinto, per il quale l’impegno politico rappresentava il principale strumento attraverso il quale agire per il bene comune. Un eroe giovane e bello, investito del gravoso compito di esorcizzare le paure di un’America ripiegata su se stessa, di ricondurre a unità il corpo di una nazione fortemente divisa al proprio interno e lacerata da conflitti sociali profondi. Otto anni fa gli slogan “hope”, “change”, “yes we can” si imponevano sul “Country First” del rivale John McCain, e non solo perché a pronunciarli era un candidato infinitamente più carismatico, ma anche e soprattutto perché ad accoglierli vi era una nazione disposta a credere che il domani potesse essere effettivamente migliore, perché ai comizi vi era tanta di quell’energia nell’aria che avrebbero potuto far esplodere fuochi d’artificio per autocombustione.

Otto anni dopo, siamo alle prese con le battute finali di una campagna il cui sentimento prevalente sembra essere la stanchezza: cittadini, osservatori e analisti sembrano concordi nel desiderare che questa lunga maratona giunga finalmente a conclusione. Gli occhi non brillano più, semmai si volgono rassegnatamente verso il basso oppure si stringono nella tipica espressione di chi implora: “Basta”.

Che cosa è successo? Esiste una parola tedesca, densa di significato come solo le parole tedesche sanno essere: Weltschmerz, una sorta di dolore cosmico che porta a essere tristi per tutto quello che non va nel mondo, e che nel suo significato originario si manifesta come una piccola fitta al cuore derivante dalla mancata rispondenza tra le proprie aspettative e il modo in cui va il mondo. Più intimo della disillusione, il Weltschmerz si insinua negli antri più reconditi del nostro essere, spegnendoci da dentro. Uscendo dal contesto del romanticismo europeo all’interno del quale il termine è stato coniato, Weltschmerz è qualcosa di molto simile a ciò che in altre discipline e con altri linguaggi viene chiamato “deprivazione relativa”.

Non è un caso che Donald Trump abbia costruito il proprio successo elettorale facendo appello alle istanze della white working class, quella che più di tutte è uscita sconfitta dalle turbolenze economiche di questi anni. Michigan, Ohio, Alabama, Mississippi: se si sovrappongono sulla cartina le aree che più hanno risentito della crisi – quell’America rurale nella quale non si è compiuta la transizione dall’economia manifatturiera all’economia dei servizi – e quelle che votano per Trump, emerge una chiara identificazione. La stessa white working class che, secondo una recente analisi pubblicata da Brookings, si distingue per una scarsissima fiducia nel futuro.

Il dato realmente preoccupante – e foriero di conseguenze di non poco conto sul futuro – non è però che Trump abbia “regalato un sogno” ai nuovi disillusi; bensì che abbia utilizzato il loro malcontento per costruire un’ideologia nichilista (la risposta più semplice al senso di dolore cosmico è la negazione del senso). In questi mesi Trump ha scoperchiato il vaso di Pandora dell’America peggiore – la retorica dei muri e delle barriere, della paura e dell’odio verso il diverso, delle donne come oggetto a propria disposizione – dimenticando che soffiare sul fuoco del risentimento può far scoppiare incendi che finiscono per bruciare il nostro stesso edificio.

E non può sfuggire il parallelismo con quanto in atto in questo momento storico nel nostro continente: un’Europa che non riesce a realizzare il proprio potenziale di spazio comune di integrazione e progresso finisce per essere ostaggio di movimenti radicali ed estremisti, che forniscono risposte semplici e rassicuranti al profondo malessere di intere fasce di popolazione che sperimentano un profondo senso di disillusione verso le istituzioni partitiche tradizionali.

Che fare dunque? L’anno che verrà, in America come in Europa, si configura come un anno zero, in cui la parola chiave, nonché la risposta a ideologie nichiliste e distruttive, deve essere “costruire”. È necessario tornare all’idea weberiana della politica come Beruf, che è professione ma è anche vocazione. Restituire dignità alla complessità, dimostrando come competenza e serietà funzionino meglio delle risposte semplici, non rinunciando però a parlare al cuore di chi si sente deluso e intimorito, finanche arrabbiato. È necessario restituire un senso di fiducia nel domani a cittadini sempre più spaventati dal futuro o disorientati dal presente. Per farlo però sono necessarie leadership forti e salde. Guardiamo dunque con attenzione all’esito elettorale americano, e da lì ripartiamo. Se i sondaggi sembrano restituire la probabile vittoria di Hillary Clinton, rimangono però molte incognite sulla conformazione di Camera e Senato, e dunque sulla possibilità di dare reale esecuzione all’agenda democratica. In Europa, i diversi appuntamenti elettorali del prossimo anno rappresentano un banco di prova, una sfida che non si può perdere.

“Ci troviamo oggi alle soglie di una nuova frontiera, la frontiera degli anni Sessanta. Non è una frontiera che assicuri promesse, ma soltanto sfide, ricca di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce”, così diceva John Fitzgerald Kennedy alla convention democratica del 1960. Oggi, quarantasei anni dopo, la frontiera “delle speranze incompiute e dei sogni” è ancora lì, e chiede di essere valicata.

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