Di A.L.P.
Quando manca poco più di una settimana all’Election Day che porterà duecento milioni di americani alle urne, sulla campagna si abbatte l’ennesimo colpo di scena. Il capo dell’FBI, James Comey, ha comunicato al Congresso di aver appreso dell’esistenza di altre e-mail di Hillary Clinton che sembrano pertinenti all’indagine già condotta (e chiusa) nei mesi scorsi. Le e-mail sarebbero state scoperte nel corso di un’altra indagine, quella che ha al centro Anthony Weiner, brillante promessa del Partito democratico poi caduto in disgrazia, nonché ex marito (da questo agosto) di Huma Abedin, numero 2 della campagna di Clinton e probabile sua futura Chief of Staff. L’ipotesi di Comey, ancora tutta da verificare, è che mail di Clinton contenenti informazioni sensibili siano transitate sui computer di casa Abedin-Weiner, con potenziali implicazioni per la sicurezza nazionale.
Facendo un passo indietro, lo scandalo relativo alle e-mail ha origine nel fatto che Clinton, durante il suo mandato da Segretario di stato, anziché usare il server del Dipartimento aveva fatto uso di un server privato, come del resto consentito dalla legge. Di fronte alla richiesta del governo di consegnare le proprie e-mail per l’archiviazione, Clinton aveva consegnato le e-mail relative alla propria attività di Segretario di stato, cancellando invece quelle private. A seguito di ciò, l’FBI aveva aperto un’indagine per appurare che l’utilizzo di una casella di posta privata non avesse creato problemi alla sicurezza nazionale, né celasse un tentativo da parte di Clinton di nascondere qualcosa. L’indagine si era poi conclusa con la dichiarazione che non vi era stato alcun intento criminale da parte di Clinton e con la raccomandazione da parte di Comey al Dipartimento di Giustizia di non intraprendere azioni contro la candidata democratica.
La decisione di Comey di riaprire l’indagine non è di per sè inusuale: semmai poco ortodossa è stata la decisione di comunicare la cosa al Congresso. L’FBI infatti, per suo stesso mandato, non è tenuta ad aggiornare opinione pubblica e Congresso sulle indagini in corso. Tanto più, verrebbe da aggiungere, perché ci troviamo nelle fasi salienti di un momento politico molto delicato per la nazione, e perché ciò che è nelle mani dell’FBI per ora è quasi nulla: le email “sembrano” pertinenti, a oggi l’agenzia non sa descrivere la rilevanza dei materiali rinvenuti, né quanto tempo sarà necessario per esaminarlo. Con ogni probabilità il risultato dell’indagine arriverà ben dopo l’8 novembre, ma intanto l’ennesima, pesante ombra del sospetto, è stata gettata sulla candidata democratica.
Tralasciando il fatto che, grazie a una rivelazione molto incerta, le dinamiche perverse dei media e della contemporaneità fanno sì che le prime pagine Usa e lo stesso dibattito pubblico sembrino aver accantonato l’accusa a Trump di sexual assault – accuse per le quali esistono invece video e prove ben più consistenti –, occorre fare una riflessione sulla potenziale portata di questo ennesimo caso.
Per tutto il mese di ottobre, a partire dai giorni successivi al primo dibattito (tenutosi lo scorso 25 settembre), i sondaggi hanno restituito un chiaro trend positivo per Clinton, negativo per Trump, tanto che il divario tra i due era giunto ad attestarsi a 5-7 punti percentuali (RCP National Average). A partire dal 28 ottobre, giorno delle rivelazioni di Comey, il margine tra i due ha cominciato a restringersi. Tenendo conto del fatto che occorre qualche giorno perché i sondaggi assorbano gli effetti degli eventi, osserviamo che tra il 31 ottobre e l’1 novembre il margine si restringe ulteriormente, fino ad arrivare a 3,1 punti percentuali di differenza. In particolare, notiamo che non sono tanto i consensi di Clinton a calare quanto quelli di Trump a salire: a partire dal 29 ottobre il candidato repubblicano guadagna poco meno di un punto percentuale al giorno.
Questa “sorpresa di ottobre” sarà letale per Clinton? Non è detto. È già successo in passato che eventi inaspettati accadessero nell’ultimo mese di campagna (da cui l’espressione ormai di uso comune di “sorpresa di ottobre”), ma raramente essi da soli hanno determinato l’esito dell’elezione. Ricordiamo l’annuncio, il 31 ottobre 1968, del presidente Johnson di fermare i bombardamenti sul Vietnam e dare avvio a colloqui di pace: la settimana precedente l’annuncio il rivale Nixon era in vantaggio di 3 punti percentuali, la successiva il vantaggio si era ridotto a un punto; l’elezione venne comunque vinta dal rivale. O ancora, in tempi più vicini a noi, il crollo del mercato azionario nella settimana del 6 ottobre 2008. Prima dell’evento, Obama era in vantaggio sul rivale McCain per 6 punti percentuali, divenuti 8 la settimana successiva: l’elezione si concluse con un +7 per Obama. Nel 2012, il 29 ottobre, fu la volta dell’uragano Sandy, che si abbattè sulla costa orientale del paese: il vantaggio percentuale di Obama su Romney (+1) rimase invariato prima e dopo l’evento, mentre l’elezione si concluse con un +4 per Obama.
Anche la statistica sembra mitigare l’allarme di una possibile rimonta di Trump: il sito FiveThirtyEight, che elabora un complesso modello statistico al fine di predire il risultato elettorale, assegna comunque a Clinton il 75,2% delle probabilità di vittoria, contro il 24,8% di Trump. La stessa aritmetica elettorale per ora è dalla parte di Clinton: se l’obiettivo di ciascun candidato è ottenere la maggioranza (270) dei 538 voti elettorali in palio, Clinton sembra avere al momento 263 voti contro i 164 di Trump. Dei 111 voti in palio nei toss-up states, i sondaggi ne assegnano 42 a Clinton, che arriverebbe dunque a quota 305, e 69 a Trump, che si fermerebbe a quota 233. In alcuni dei toss-up states però il vantaggio di Clinton è molto stretto (in Arizona, che assegna 11 voti, è di +0,6%). Questo è vero però anche per Trump: la Florida, che assegna 29 voti, quest’anno sembra essere più in bilico degli altri anni, e il vantaggio di un punto percentuale a favore di Trump potrebbe ridursi e anzi ribaltarsi a favore di Clinton, che a questo punto realizzerebbe un’impresa storica. Di fronte a questi dati, le possibilità di vittoria per Trump si riconducono a due scenari: il candidato repubblicano dovrebbe vincere in Iowa e Ohio (dove del resto è in vantaggio) e strappare ai democratici Michigan e Wisconsin, che però i sondaggi al momento assegnano saldamente a Clinton; oppure, potrebbe concentrare i propri sforzi in Pennsylvania e New Hampshire, anch’essi al momento più tendenti verso il partito Democratico.
Ma il prossimo 8 novembre non si vota solamente per la Casa Bianca: in palio ci sono anche i 435 seggi della Camera dei rappresentanti e un terzo dei seggi del Senato (34 seggi su 100). Dal 2014 entrambi i rami del Congresso sono controllati dai Repubblicani (la Camera dal 2010), situazione che ha ristretto non di poco il margine di azione di Obama, che si è visto dunque costretto a fare ricorso perlopiù a ordini esecutivi per avanzare la propria agenda. Le speranze democratiche di ottenere il controllo della Camera passano per la riconferma dei 188 seggi al momento detenuti e la contemporanea conquista di 30 seggi in questo momento in mano ai repubblicani: solo così si potrebbe ribaltare l’attuale situazione che vede i democratici detenere, appunto, 188 seggi, e i repubblicani 247, 29 più dei 218 necessari per avere la maggioranza. Al di là dell’effetto positivo che un voto per Hillary Clinton a livello nazionale può avere per i candidati democratici alle elezioni legislative, le probabilità che essi strappino ai repubblicani il controllo della Camera sono in realtà alquanto basse: gerrymandering (la pratica di ridisegnare i collegi elettorali in modo strumentale) e sistema elettorale maggioritario uninominale sembrano favorire i repubblicani.
Più aperta la corsa al Senato, che avviene con un sistema maggioritario semplice (ogni elettore vota per un candidato e viene eletto il candidato che ottiene la maggioranza relativa dei voti): non penalizzati dal gerrymandering, qui i Democratici potrebbero effettivamente capitalizzare sullo scarso consenso raccolto da Trump tra gli stessi elettori repubblicani, che quindi non si presenterebbero alle urne favorendo così i candidati democratici. Da rilevare però che, soprattutto nell’ultimo mese, si è assistito in campo repubblicano a una vera e propria corsa al rinnegamento di Trump, dettato probabilmente più dall’esigenza di salvaguardare il proprio seggio in Congresso che non da convinzioni etico-morali. Anche in questo caso, dunque, gli scenari sono quantomai aperti. Partendo da una situazione attuale di 54 seggi controllati da Repubblicani e 44 da Democratici (2 sono indipendenti, che però votano con i Democratici), e considerando che dei 34 seggi in palio quest’anno, 24 sono occupati da Repubblicani e 10 da Democratici, questi ultimi potrebbero ottenere la maggioranza solamente confermando i 10 seggi attualmente detenuti e strappandone almeno 4 ai Repubblicani. Di questi 4, 2 (Illinois e Wisconsin) sono conteggiabili in quota democratica; i due mancanti andranno conquistati tra i seggi con senatore repubblicano uscente che sono in bilico secondo i sondaggi (Indiana, Pennsylvania, North Carolina, New Hampshire, Missouri).
Occhi puntati sulle singole mappe nazionali, dunque, perché dal risultato di Camera e Senato passa anche la futura governabilità del paese: una presidenza Clinton con un Congresso compatto e ostile – e, se così sarà, vi è da scommettere che sarà fortemente ostile, tanto che alcuni osservatori ipotizzano futuri tentativi di impeachment – diminuisce notevolmente le possibilità che la storica democrazia americana riesca a riconciliare le proprie diverse anime e fare pace con se stessa. Al contrario, un quadro politico sempre più polarizzato potrebbe diminuire notevolmente non solo la capacità di azione sul fronte interno ma anche la postura politica internazionale, in un momento in cui invece il mare burrascoso della politica internazionale necessita di leadership salde al proprio timone.