La radicalizzazione da Orlando a Lione: le tante storie di Samuel Byck

Il 22 febbraio 1974 Samuel Byck guidava la sua vettura scalcinata verso l’aeroporto di Baltimora. Nato in una famiglia modesta nel sud di Philadelphia, Samuel aveva lasciato la scuola giovanissimo per aiutare i genitori. Dopo essere cresciuto tra vari lavoretti e due anni di ferma nell’esercito, nel 1956 si era sposato e aveva avuto quattro figli. Ma nel 1972 la moglie lo lascia, portandosi via i bambini. Nei due anni successivi Samuel entra in profonda depressione, perde numerosi lavori e vede sfumare il progetto imprenditoriale nel quale aveva investito tutto a causa del rifiuto della Small Business Administration di accordargli il prestito necessario. Quel giorno Samuel guida verso l’aeroporto non per un volo d’affari o di piacere. Vuole dirottare un aereo e puntarlo contro la Casa Bianca: Samuel vuole uccidere il presidente Richard Nixon.

Non ci riuscirà. Riuscirà solo ad arrivare a bordo del volo 523 diretto ad Atlanta ma verrà abbattuto dagli uomini della polizia, non prima però di togliere la vita a una guardia dell’aeroporto e a uno dei piloti. Trent’anni dopo la sua vicenda verrà ripresa da uno struggente film di Niels Mueller (“L’Assassinio di Richard Nixon”) in cui la sua parte verrà interpretata da Sean Penn.

Perché una storia come quella di Samuel, a metà strada tra il folle, il tragico e il ridicolo, immersa in una atmosfera di soffocante malinconia, vale la pena di essere raccontata. Anche adesso, soprattutto ai nostri giorni dominati da crisi economiche, disoccupazione, guerre e bandiere nere. Soprattutto oggi le storie come quelle di Samuel Byck si ripetono ancora, sempre diverse e uguali a sé stesse. La stessa storia, uguale e diversa, si è ripetuta in Francia il dicembre scorso, quando Yassin Salhi, un impiegato di una compagnia di gas francese, ha decapitato il suo capo al termine di una storia professionale e personale di fallimenti e umiliazione. Questa volta però non ha detto di averlo fatto contro l’Europa, la Francia o il presidente Hollande. Ha detto di averlo fatto in nome dello Stato Islamico di Iraq e Siria e del suo Califfo Al-Baghdadi.

La storia di Samuel si è ripetuta ancora poche settimane fa, nell’anonima stazione ferroviaria di uno sperduto villaggio nel cuore verde della Baviera. Questa volta è stato un disoccupato ventisettenne di Francoforte, di cui le autorità tedesche non hanno rilasciato le generalità (in un atto di rara correttezza umana e istituzionale per proteggerne i famigliari da probabili caccie alle streghe), che alle cinque del mattino ha aggredito con un pugnale gli assonnati passanti in attesa del treno uccidendone uno. Niente lunghe e solenni rivendicazioni in questo caso. Semplicemente i testimoni raccontano che poco prima di lanciarsi all’assalto il giovane abbia gridato “Allah Akhbar”.

L’ultima replica della storia di Samuel, più tragica e sanguinosa come può accadere in un paese dove le armi automatiche si acquistano al supermercato, l’abbiamo vista pochi giorni fa, a migliaia di chilometri di distanza: a Orlando, Florida. Un uomo, proveniente da una famiglia di origine afghana molto conservatrice e omofoba, è entrato al Pulse, noto locale gay della città, massacrando 50 persone che si trovavano all’interno per una serata di musica latinoamericana. Omar Mateen era un omosessuale la cui sessualità era stata repressa dalle regole e dai pregiudizi impostigli dalla sua famiglia e da quel padre che, poche ore dopo la strage, ha rilasciato una dichiarazione in cui con un notevole esercizio retorico riusciva a condannare sia l’atto del figlio sia le sue vittime.

La “Scalinata verso il Terrorismo”: L’abisso tra realtà e aspettative

Ci sono tanti modi di etichettare la strage di Orlando. C’è quella facile, ed elettoralmente proficua, dell’attacco a sfondo religioso. Ce n’è poi un’altra che vede nella strage del Pulse un tremendo rigurgito di omofobia, ancora così presente nella società americana.

Ma questa strage è anche un’altra cosa. È l’espressione tragica e terribile di una dinamica umana che trascende la storia e la geografia, e che si ripete uguale a sé stessa a Baltimora come in Baviera. È la stessa dinamica dietro agli atti sanguinari di migliaia di individui in giro per il pianeta alla ricerca di un modo perché qualcuno nel mondo interpreti l’esplosione delle loro repressioni e disperazioni personali come un atto eroico. Come un atto in nome di un ideale più alto ed eterno che non la squallida vendetta contro un capo ufficio che ti ha umiliato per anni. Come un atto fatto con e in nome di molti altri, anche sconosciuti, membri del genere umano. Per non sentirsi soli e pazzi esecutori dell’epilogo miserabile delle proprie esistenze personali.

Ma le storie di Samuel, Omar, Yassin, e dell’anonimo di Francoforte tra queste migliaia sono a loro modo speciali. Lo sono perché nella loro cruda e surreale semplicità sono in grado di mettere pienamente a nudo questa dinamica. Nel 2005 Fathali Moghaddam scrisse un paper accademico intitolato “The Staircase to Terrorism” (La Scalinata verso il Terrorismo). Il suo scopo era capire meglio come un individuo nel mezzo della sua vita abbandoni la propria visione del mondo per adottarne un’altra, più radicale, in grado in alcuni casi di portarlo a compiere atti di violenza. Lo psicologo iraniano della Georgetown University ipotizzò un processo progressivo, fatto di passaggi da uno stato di frustrazione che porta a perdere fede e attaccamento nella propria attuale visione del mondo a uno stato in cui ne adotta una nuova, in cui sente di riacquistare un posto di importanza nell’universo. Un posto eroico, che non lo veda più come un emarginato all’interno del proprio ambiente sociale, ma come un individuo padrone del proprio destino che agisce nel nome di una causa che coinvolge altri esseri umani che vedranno in lui un eroe. Tutto parte al “gradino zero”, il punto in cui l’individuo perde la rotta della propria esistenza, che va in una direzione contraria alle proprie aspettative. Ed è sulla dinamica delle aspettative e dei desideri indotti dalla società che lo circonda che si gioca gran parte di questo meccanismo. Non esistono soddisfazione o ricchezza assoluti, ma sempre relativi alla propria condizione individuale. Quella che appare una vita fortemente deludente a un membro delle classi medio-basse bianche americane che cerca riscossa nel sogno grottesco narrato da Trump può sembrare un paradiso inarrivabile a un contadino del Vietnam. Ma, al primo, degli immaginari del secondo – ammesso che ne venga mai a conoscenza – non importerà nulla. Quello che conta è la percezione dell’individuo, della propria condizione e di ciò a cui la società lo ha indotto a credere di essere destinato.

Identità, categorie e autostima

Riflettendo sulle dinamiche profonde dell’identità, il sociologo britannico Richard Jenkins ha scritto “esiste qualcosa di ‘attivo’ nella parola identità che non può essere ignorato. L’identità non è semplicemente ‘data’. Deve essere sempre ristabilita”. Alla ricerca di questo significato fluido del concetto umano di identità, un altro sociologo inglese, Henri Tajfel, costruì un’intera teoria chiamata “teoria dell’identità sociale”. Secondo Tajfel, le persone dalla loro nascita alla loro morte cercano, formano e ricontrattano costantemente la propria identità interagendo con l’ambiente che li circonda, con i suoi simboli e, soprattutto, con gli altri esseri umani con cui entrano in contatto faccia a faccia o attraverso i moderni mezzi di comunicazione. L’identità diventa così un concetto estremamente fluido, continuamente condizionato dal contesto sociale, geografico e storico in cui queste interazioni avvengono. C’è qualcosa di estremamente rivoluzionario in questa affermazione. Perché essa fa diventare solide certezze, secolari realtà dell’esistenza umana come nazionalità, lingua o classe sociale, semplici incidenti della storia (e della geografia). Esse diventano solo qualcosa percepito come reale e rilevante dalle persone a causa di condizioni particolari che dominano la psicologia del loro gruppo sociale in un certo periodo. Oggi alcuni si sentono risolutamente italiani, ieri altri, o magari gli stessi, si sentivano risolutamente comunisti, categorizzandosi secondo l’appartenenza a una classe sociale che nella loro percezione trascendeva ogni confine politico o geografico. Altri ancora si categorizzano rispetto ad altri set di valori basati sulle più svariate classificazioni: la nazione, la classe sociale, il modo di vestirsi, o la passione irrefrenabile per Star Wars.

In maniera analoga, molti anziani leader di quelli che oggi sono affermati partiti islamisti in giro per il Medio Oriente, in gioventù appartenevano alle formazioni laiche panarabiste che dominavano la scena politica mediorientale negli anni ’50 e ’60. Quando il nazionalismo (e non la religione) dominava e plasmava le identità di tanti giovani della regione. Molti di quelli che ieri si sentivano primariamente arabi, oggi si sentono primariamente musulmani. Secondo Tajfel, questa auto-categorizzazione che gli individui operano continuamente non è indipendente, bensì esiste sempre in funzione di un opposto, un “relevant group” che attraverso la sua esistenza permette all’individuo di demarcare con precisione i confini della propria categoria di appartenenza, di quello che è e che non è, e di definire così il proprio posto nel mondo. Per esistere, qualunque eroe positivo ha bisogno di un antagonista: che siano i politici corrotti, Bilderberg, il Grande Satana americano, Richard Nixon, o le persone omosessuali.

Il posto che questo individuo percepisce di avere all’interno della propria categoria è fondamentale. Esso è il motore stesso della sua scelta e del suo agire, in uno scambio costante tra la soddisfazione delle proprie aspettative in cambio dell’adesione totale a quella visione del mondo. La maggior parte degli individui si sente parte di numerose “categorie” allo stesso momento. La contingenza storica e, soprattutto, la capacità di una categoria in un certo momento di conferire autostima all’individuo, di farlo sentire parte di un gruppo sociale vincente e destinato a prevalere, sono ciò che porta una certa categoria a essere percepita più fortemente dall’individuo. Essere milanisti ai tempi di Sacchi o Capello era assai più semplice rispetto a oggi. Gli abbonamenti allo stadio e le vendite di gadget si impennavano: tutti volevano mostrare e sentirsi parte di un gruppo considerato vincente e sulla cresta dell’onda. Esattamente il contrario di ciò che accade oggi.

Il califfato e la radicalizzazione a costo zero

Ma cosa c’entrano i milanisti con la vicenda di Samuel Byck? Non hanno già abbastanza problemi?

In effetti direttamente pochissimo, ma l’andamento del tifo per una squadra di calcio – del senso di “appartenenza” che essa ispira a seconda che vinca o meno – è una dinamica del tutto simile a quella che avviene nella mente di una persona che cerca disperatamente una nuova cornice in cui vedere le proprie azioni. Una squadra di calcio, così come l’appartenenza a un movimento ideologico, sono strumenti a disposizione dell’individuo per accrescere la propria percezione di occupare un posto di valore nel mondo: “Non sono più un cittadino privo di qualunque influenza sulle decisioni politiche del mio paese. Oggi posso votare online, scegliere alternative, far parte di un movimento che veicola la mia voce come gli altri rifiutavano di fare. Dove uno vale uno.” Prima di salire sulla sua macchina per dirigersi all’aeroporto, Samuel Byck aveva registrato numerose audiocassette che aveva spedito a diversi politici americani. Li accusava di essere i membri di una cupola organizzata votata alla corruzione e allo sfruttamento del popolo americano. Ricorda qualcosa?

Ovviamente Samuel Byck rimase solo nella propria nuova complottista visione del mondo “fatta in casa”. In altri casi, quando una visione del mondo simile è più o meno istituzionalizzata all’interno di un gruppo organizzato che limita i possibili strumenti di azione dei propri membri, essa può essere in grado di escludere l’uso della violenza. Quasi sempre. Anche quando rifiutano esplicitamente la violenza, la logica dell’odio che di solito caratterizza il messaggio di formazioni sociali e politiche che predicano il “noi” contro di “loro”, il “popolo buono” contro i suoi perfidi e mefistofelici “nemici” sono naturalmente portate a seminare una tensione che può portare a scoppi di violenza isolati ma non necessariamente meno gravi. Ne sa qualcosa, per esempio, il Regno Unito, ancora sotto choc per l’omicidio della deputata laburista Jo Cox.

Ma in generale un gruppo del genere appare inutile per un individuo che cerca una giustificazione epica ed eterna per sgozzare il proprio capoufficio. Molto più utile invece ricorrere a un altro simbolo, qualcosa di cui parlano tutti, qualcosa che dice in continuazione, accompagnandosi con video ogni giorno più truculenti, che la violenza nel loro nome è accettata e anzi incoraggiata. Che puoi essere un eroe del Califfato a costo zero: zero quote d’iscrizione, zero viaggi di addestramento, zero gavetta. L’eternità in cambio di una dichiarazione di fedeltà, anche al 911 un minuto prima di passare all’azione, e la libertà di sfogare finalmente le tue frustrazioni sapendo che c’è qualcuno, da qualche parte nel mondo, che non vedrà in te uno sfigato, come in fondo anche tu pensi di essere; ma un eroe.

Un affare d’oro. Un affare allettante per sempre più persone in un’epoca in cui crisi economiche e crescenti ineguaglianze sociali aumentano costantemente il gap tra risultati e aspettative nelle vite di milioni di persone in giro per il mondo. Un’epoca in cui le tante storie di Samuel Byck ritornano ancora, in mille forme sempre uguali e sempre diverse, a ricordarci le radici profonde di questo male insieme banale e feroce. E le sue imprevedibili conseguenze.

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