Il flop dei MacronLeaks e la bolla delle Fake News

Il 6 maggio, 41 ore prima dell’apertura dei seggi per il ballottaggio delle elezioni presidenziali francesi, circa 9 gigabyte di mail e documenti sottratti dai computer dei membri dello staff di Emmanuel Macron sono stati resi pubblici online da una serie di account twitter legati all’estrema destra americana e ripresi da siti come 4chan e Wikileaks. Neanche un centinaio di ore più tardi Macron è diventato il 25° presidente della Repubblica Francese con oltre il 66 percento dei voti; addirittura 3% in più di quelli pronosticati dagli ultimi sondaggi disponibili.

Questa esperienza francese ci ha insegnato due cose: la prima è che piani coordinati e pianificati per influenzare le tornate elettorali delle democrazie occidentali esistono, e sono riconducibili con buona sicurezza agli ambienti dell’estrema destra americana ed europea e probabilmente perfino al governo russo. La seconda è che non funzionano. O, quantomeno, funzionano poco. E se quindi oggi Marine Le Pen può dire di avere ottenuto un terzo dei voti dei francesi forse le ragioni sono altre.

Quest’ultima affermazione può sembrare ardita, forse azzardata, e in parte lo è. Ma cerchiamo di analizzarla meglio. Prima di tutto è necessario dire che l’esistenza di una rete di siti internet di dubbia origine e proprietà a cui è legata una altrettanto dubbia rete di account social (soprattutto twitter) che ne spargono i contenuti è conclamata ormai da tempo. Una fitta rete composta da centinaia di siti web in diverse lingue che si ispirano tutti allo stesso tipo di teorie cospirative, che attingono alle stesse fonti e che spesso si linkano a vicenda gli articoli è difficilmente casuale. Se poi aggiungiamo la presenza di gruppi di utenti reali e centinaia di bot che in modo coordinato fanno girare e amplificano nello stesso periodo di tempo le stesse informazioni, slogan e articoli la presenza di una organizzazione reale e “senziente” appare piuttosto certa. Appare evidente ormai anche il ruolo avuto da compagnie di comunicazione come Cambridge Analytica sia nella campagna in favore della Brexit, sia in quella per l’elezione di Donald Trump. Infine, sia gli hack avvenuti a danno di singoli candidati come Hillary Clinton e Emmanuel Macron sia quelli che hanno colpito agenzie governative americane come il recente Vault 7 hanno in comune almeno due elementi: l’enorme mole di informazioni rese pubbliche nello stesso momento e la conseguente impossibilità di verificarle in tempi rapidi. Questi elementi però hanno uno scopo preciso: da una parte sfruttare la “fretta” giornalistica di pubblicare una notizia, e pubblicarla prima di chiunque altro. La necessità di verifica si scontra perciò con l’alto livello di competitività e la sempre maggiore necessità di immediatezza presenti nell’industria giornalistica. Dall’altra parte questi elementi sfruttano la crescente “gossipizzazione” dell’industria mediatica, come spiegato bene in questo pezzo.

C’è però una differenza abbastanza chiara che emerge dalla vicenda dell’hack avvenuto a danno dello staff di Emmanuel Macron che si può riassumere in una parola: sfacciataggine. In passato tempistiche e modalità degli hack che colpivano un candidato o un governo erano almeno all’apparenza casuali, solo remotamente legati a certe vicende elettorali. La Clinton non fu colpita dalla pubblicazione delle sue mail private a ridosso dell’elezione presidenziale ma molto prima, durante le primarie, mentre Vault 7 è stato pubblicato addirittura dopo l’elezione di Trump. Ovviamente già allora si riscontrarono elementi comuni: in primis, il fatto che si vada a colpire solo un candidato e non gli altri, e spesso il fatto che se ne sia parlato molto in anticipo rispetto all’appuntamento elettorale ha favorito la ripetizione massiccia di rivelazioni più o meno esatte (come quelle sulle famose mail della Clinton), elemento che certamente ha un ruolo nel solidificare alcune convinzioni.

Nel caso del #MacronLeaks, però, tempistiche e modalità sono risultate talmente ovvie da essere forse controproducenti. 9 giga di informazioni relative alla campagna di un solo candidato – già peraltro nel mirino di altre notizie false negli ultimi mesi – rilasciate a poche ore dall’inizio del periodo di silenzio elettorale imposto dalla legge francese durante il quale Macron e il suo staff non avrebbero potuto difendersi a mezzo stampa. Una mole di informazioni inverificabili all’interno delle quali avrebbe potuto essere stati aggiunti documenti più o meno contraffatti le cui dimensioni chiaramente miravano a sfruttare le caratteristiche sopradescritte dell’industria mediatica. In passato gli hack avevano avuto come obiettivo principale “dichiarato” quello dell’assoluta trasparenza, mentre il messaggio politico rimaneva solo implicito, per quanto chiaro, a favore di questo o quel candidato. Nel caso del MacronLeaks questo equilibrio è cambiato: il messaggio principale era uno solo, e senza veli particolari: “Domani non votate Macron, votate Le Pen”.

Ed è forse questa “sfacciataggine” che ha reso il messaggio più debole, unita al rifiuto dei media francesi di cadere nella dinamica in cui invece erano sempre caduti i media americani, favorendo una “contro-reazione” che ha infine portato l’intera vicenda a esaurirsi, almeno per ora, solamente in rete. C’è chi specula anche sul fatto che questa volta lo staff di Macron fosse preparato all’eventualità dopo l’esperienza di Hillary Clinton, e avesse attuato innovative contromisure. Ma forse l’elemento di cui più bisogna tenere conto è il fatto che questa volta non si trattava, come nel caso delle elezioni americane o del referendum sulla Brexit, di una corsa giocata intorno a una distanza di 2-3 punti percentuali. Specialmente dopo l’ultimo dibattito Macron aveva oltre 20 punti di distacco su Marine Le Pen e proprio per questo il MacronLeaks è apparso a molti più un tentativo disperato più che una sofisticata azione di cyber warfare.

Questa vicenda, e le sue differenze col passato, servono forse a darci soprattutto l’idea del fenomeno delle cosiddette “fake-news” in politica e della reale dimensione del problema. Come ha ammesso anche Carole Cadwalladr, autrice dell’inchiesta sul ruolo avuto da Cambridge Analytica nella campagna per la Brexit, perfino le più sofisticate tecniche di condizionamento dell’opinione hanno effetto solo su un numero relativamente ristretto di elettori, commisurabile, nel caso della Gran Bretagna, in qualche centinaio di migliaia. Un nulla quando hai 20 punti di vantaggio ma certamente potenzialmente determinanti quando la partita di gioca su meno di un milione di indecisi. Ma è proprio questo il punto: se l’uscita dall’Unione Europea o l’elezione di un presidente come Donald Trump sono arrivati a doversi giocare sul filo delle centinaia di migliaia di voti forse il problema va ben oltre le fake news e i condizionamenti esterni, ma ha a che fare con fattori molto più strutturali a un sistema giunto a sentirsi sull’orlo dell’abisso ormai a ogni tornata elettorale.

Insomma, parlare di fake-news e condizionamenti esterni è giusto, perché il problema esiste e non farlo vuol dire mettere la testa sotto la sabbia. Ma forse imbrigliare internet in leggi e regolamenti che ne limitano la libertà di utilizzo in nome delle fake-news è altrettanto irresponsabile. Così come lo è pensare che tutti i mali delle democrazie occidentali siano appuntabili a qualche decina di bot su Twitter.

Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Previous Post

Europa a più velocità: quale futuro per la politica estera?

Next Post

Lo Stato Imprenditore

Related Posts