Di Ugo Papi*
La vittoria di Trump negli Stati Uniti apre uno scenario inedito e imprevedibile nella geopolitica mondiale. Il nuovo presidente durante la sua campagna ha detto tutto e il suo contrario e parte delle minacce e delle promesse elettorali, come sempre avviene, non si tradurranno in fatti. Nonostante ciò è possibile disegnare qualche scenario a partire da alcune costanti del pensiero “trumpiano” in politica estera, alcune delle quali, se dovessero trasformarsi in fatti, potrebbero sconvolgere gli equilibri del pianeta. Trump, come altri candidati americani non conosce il mondo e le sue dinamiche, al contrario della Clinton che è stata di gran lunga la candidata alla presidenza più esperta e preparata in politica estera che l’America abbia avuto da alcuni decenni a questa parte grazie all’esperienza acquisita da first lady e soprattutto da segretario di Stato con Barack Obama. Trump è portatore di quello che Walter Mead chiama “Nazionalismo Jacksoniano”, un misto di unilateralismo e impulsi isolazionisti che da sempre contraddistingue una parte del pensiero americano di marca repubblicana. Se attuata, tale politica porterebbe l’America a abbandonare il ruolo di garante del sistema post bellico che ha avuto sino a ora. A questa tendenza “The Donald” unisce una presunzione sconfinata nelle sue capacità di businessman capace di trovare accordi vantaggiosi con chiunque, soprattutto con gli “uomini forti” con i quali si identifica. Da qui la sua marcata simpatia per Putin e l’odio nei confronti del multilateralismo. Se dovesse sul serio trovare un accordo con la Russia per superare le tensioni dell’era Obama, cancellando le sanzioni e lasciando al suo destino Crimea e Ucraina, la nuova situazione avrà ripercussioni notevoli per l’Europa, la Nato (nella quale Trump ha già detto di voler ridimensionare il ruolo americano a causa del poco impegno economico degli alleati) e lo scacchiere mediorientale, dal quale l’America potrebbe definitivamente tirarsi fuori seguendo un trend già inaugurato con Obama. Incognite ancora maggiori riguardano il rapporto con la Cina. Trump e Xi Jinping si sono parlati al telefono e le dichiarazioni dei due sono improntate per ora alla prudenza e a toni diplomatici di cautela. Il neo presidente ha lanciato però accuse infuocate in campagna elettorale nei confronti di Pechino, per la concorrenza commerciale sleale. È arrivato a promettere dazi del 45% sulle merci cinesi. È però assai probabile che dovrà rimangiarsi la parola. L’affidabile e indipendente Peterson Institute di Washington calcola infatti in milioni i posti di lavoro persi a causa della reazione sicura che Pechino attuerebbe: immediate ritorsioni commerciali innalzando le tariffe sulle importazioni di beni e servizi dagli Usa, con conseguente balzo dei prezzi, crolli in borsa e contrazione degli investimenti. Anche nel caso di misure più selettive contro i cinesi, questi minacciano di vendere il trilione di titoli di Stato americani bloccando anche l’importazione dei prodotti agricoli americani e l’acquisto dei nuovi Boeing a favore degli Airbus. In questi giorni è stato ventilato da Pechino anche il taglio delle forniture alla Apple che produce i suoi iPhone in Cina. Lo scenario è da brividi e da un uomo di affari come Trump è difficile aspettarsi passi del genere, vista l’interdipendenza tra le due economie globalizzate. Ancora più incerto è il futuro del “Pivot to Asia” che aveva portato Obama a sponsorizzare il TPP tra i paesi delle due sponde del Pacifico escludendo la Cina. Trump, come la sua avversaria Clinton, ha chiaramente detto che cancellerà l’accordo di libero scambio, per rassicurare i lavoratori americani. Su questo terreno è probabile che il nuovo leader vada avanti e la cosa non dispiace per nulla a Pechino, che potrà intensificare il suo progetto di “Nuova via della seta”, che molti avevano già visto come la risposta del gigante asiatico al trattato trans pacifico. Più incerto è il futuro dell’impegno americano nel campo della difesa e delle alleanze tradizionali dell’area, in primis Giappone, Corea e Australia, senza dimenticare la delicata situazione taiwanese. Obama aveva apertamente incrementato tale ruolo, estendendolo ai paesi del sud est asiatico minacciati da una Cina più assertiva nel Mar cinese meridionale, dove transitano merci e prodotti energetici vitali per il mondo intero. Finora l’America aveva imposto la sua presenza militare a garanzia di tali rotte. Se Trump seguisse davvero la sua politica isolazionista si scatenerebbe una corsa al riarmo dalle conseguenze imprevedibili nell’area a più forte sviluppo del pianeta, ma ancora contraddistinta da nazionalismi in forte ascesa. La preoccupazione a Seoul e Tokyo è palpabile già ora e tenderà ad aumentare se non arrivassero rassicurazioni da Washington. C’è chi spera che anche Trump apprenderà l’arte della prudenza e della diplomazia seguendo i consigli dei futuri consiglieri repubblicani più tradizionali. Ma le prime nomine non lasciano ben sperare e l’imprevedibilità del personaggio non lascia presagire nulla di buono per le sorti del mondo.