Il dossier iraniano nell’era Trump: i rischi e il possibile ruolo dell’UE

Tra le numerose incognite che circondano l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ve n’è una che tiene con il fiato sospeso attori internazionali diversissimi fra loro: Cina, Russia, Unione europea, Iran. Proprio quest’ultimo paese infatti è stato oggetto di aspri attacchi da parte del neoeletto presidente, che più volte durante la campagna elettorale ha ribadito di voler “stracciare” l’accordo sul nucleare e negoziarne uno nuovo. È comprensibile che in questo delicato momento le cancellerie dei paesi coinvolti nel negoziato, così come gli stessi iraniani, guardino con un misto di ansia e preoccupazione a quello che succederà dopo l’insediamento. A destare preoccupazione non è tanto la possibilità che la nuova amministrazione possa “stracciare l’accordo” (cosa tecnicamente possibile ma politicamente sconsigliabile, in primis per le ripercussioni in termini di credibilità presso i propri alleati), quanto la possibilità che gli Stati Uniti possano intraprendere azioni fortemente punitive nei confronti dell’Iran, che finirebbero per inficiare i buoni risultati ottenuti finora in termini di costruzione del dialogo e della fiducia reciproca. Tali azioni, inoltre, renderebbero estremamente probabile una emarginazione dell’amministrazione moderata di Rouhani a favore delle ali più radicali del regime, portando dunque a una nuova “chiusura” del sistema e a un comportamento più aggressivo nella regione.

Due elementi concorrono a rafforzare la preoccupazione per quanto in questi giorni accade al di là dell’Atlantico: il fatto che il partito Repubblicano – tra i più forti oppositori dell’accordo – potrà dal prossimo gennaio trovare nella presidenza una sponda per le proprie istanze punitive nei confronti di Teheran (non ci sarà più Obama a porre il veto alle proposte di nuove sanzioni) e la mancanza di esperienza del neoeletto presidente, che lo porterà a delegare decisioni, o a essere fortemente influenzato, dalle persone di cui si circonderà. Guardando alla rosa dei nomi che ha preso a circolare in questa settimana, le premesse sono tutt’altro che rosee: John Bolton, Newt Gingrich, Rudy Giuliani (di cui si parla per incarichi alla segreteria di Stato e alla Difesa) si sono in passato distinti per posizioni radicali nei confronti dell’Iran, sposando, quando non avanzando, la tesi del regime change. Tutti e tre hanno partecipato – dietro lauto compenso – a manifestazioni organizzate dal gruppo Mojaheddin-e Khalq (MEK), un gruppo terrorista di stampo marxista incentrato sul culto personale del proprio leader, che dal 1979 si autoproclama governo iraniano in esilio e che avoca il cambiamento di regime a Teheran.

Per il momento, l’Iran reagisce con calma apparente: tanto il presidente Rouhani quanto il ministro degli Esteri Zarif hanno speso parole rassicuranti in questi giorni per tranquillizzare la popolazione circa il fatto che il risultato elettorale negli Usa non inciderà sull’accordo, “perché si tratta di un accordo multilaterale incastonato in una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. La Guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, sembra invece al momento impegnata a tenere a bada i falchi con dichiarazioni che reiterano l’indifferenza di Teheran nei confronti del risultato elettorale di un paese di cui, comunque, “non ci si può fidare”. La calma è però, per l’appunto, solo apparente, per via delle motivazioni accennate sopra: l’attuale amministrazione teme che la rinnovata ostilità degli Stati Uniti possa fare il gioco delle fazioni del regime più radicali; nel caso, se non dello stralcio dell’accordo, del varo di nuove sanzioni, Rouhani incontrerebbe enorme difficoltà a giustificare la continuazione dell’attuale politica di “moderata apertura”; la mancata “delivery” in termini di benefici economici per la popolazione, infine, potrebbe costargli la rielezione il prossimo maggio (secondo un copione già visto nel 2005 con il passaggio da Mohammad Khatami a Mahmoud Ahmadinejad).

Di fronte all’incertezza per quello che accadrà negli Stati Uniti a partire da gennaio, e di fronte alle poche certezze che non lasciano molto spazio all’ottimismo, è questo il momento per l’Unione europea, che ha giocato un ruolo decisivo nella mediazione del negoziato tra i P5+1, di elevarsi in maniera ancora più decisiva a garante dell’accordo nucleare e di proseguire nell’invio di segnali distensivi a Teheran. Un ruolo, questo, che l’Alto rappresentante Federica Mogherini ha prontamente rivendicato lo scorso 13 novembre al termine della cena informale dei ministri degli Esteri Ue: “Let me tell you very clearly that this is not a bilateral agreement, it is a multilateral agreement, endorsed by the UN Security Council resolution. So it is in our European interest, but also in the UN interest and duty to guarantee that the agreement is implemented in full”. Pur rimanendo nel solco dell’indispensabile dialogo transatlantico, l’Unione europea deve prepararsi nei prossimi mesi a compiere scelte coraggiose (non solo sul dossier iraniano).

A questo scopo, sarà cruciale nei prossimi mesi la capacità di mantenere compatto almeno il fronte degli EU3, i tre paesi (Francia, Germania, Regno Unito) che hanno preso parte al negoziato con Teheran. Purtroppo, dall’analisi del trend in corso non emergono segnali incoraggianti. Con un Regno Unito fuori dall’Unione europea e una Francia ostaggio il prossimo anno di un turno elettorale con ogni probabilità polarizzante (e di una politica estera tradizionalmente più vicina ai paesi del Golfo), al momento sembra rimanere un solo paese: la Germania. In questo contesto, l’Italia – forte di una relazione storica con l’Iran e di un atteggiamento finora pragmatico – potrebbe, e dovrebbe, giocare un nuovo ruolo propulsivo in sede europea per garantire che rimanga aperto il canale di dialogo, così come le relazioni economiche, con Teheran.

Solo tenendo saldo il timone si potrà passare indenni attraverso la tempesta in arrivo da oltre Atlantico: l’accordo nucleare con l’Iran, dopo aver rappresentato un successo della diplomazia europea, si candida a diventare uno dei possibili dossier che possono aiutare l’Ue a “diventare grande”. Solo così si potrà dimostrare che il multilateralismo e la soluzione negoziata delle crisi non sono sacrificabili sull’altare degli egoismi nazionali.

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