L’Egitto che non abbiamo voluto vedere

CAIRO, EGYPT – JULY 08: Following a day of massive rallies against the ousted Egyptian President and an early morning shooting of pro Mohamed Morsi supporters outside a Presidential Guard barracks, members of the Egyptian military and their supporters guard a bridge near Tahrir Square on July 8, 2013 in Cairo, Egypt. Egypt continues to be in a state of political paralysis with scores of people having been killed and many injured in recent days as the Egyptian military attempts to restore order across the country following their ousting of Morsi. (Photo by Spencer Platt/Getty Images)
MondoDem Redazione
“L’Egitto è un partner strategico” è il mantra che si ripete da un mese a questa parte, da quando la tragica scomparsa del giovane ricercatore Giulio Regeni ha fatto irruzione nella quotidianità del dibattito pubblico italiano. Non si è trattato però di una semplice scomparsa: Giulio è stato fatto scomparire, è stato torturato per giorni e ucciso, il suo corpo abbandonato in un fosso alla periferia della capitale egiziana, i responsabili ancora senza nome. Ma è difficile dubitare, al di là della diplomazia delle dichiarazioni ufficiali, del coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane. Ed è proprio da questo punto che la politica deve partire per una seria e fredda riflessione, al riparo dall’emotività e dall’orrore generato dalla vicenda nell’opinione pubblica. Perché la morte di Giulio Regeni è prima di tutto un segnale, tragico, di qualcosa che finora ci eravamo probabilmente rifiutati di vedere: la fragile ferocia del regime egiziano.
Un regime che noi chiamiamo, a ragione, “partner strategico”, alla testa del paese più popoloso del Mediterraneo, ricco di risorse e potenzialità economiche di cui l’Italia è sempre stata, per ragioni storiche e geografiche, un partner fondamentale. Ma oggi quel regime è “partner strategico” anche nell’altra grande questione del nostro tempo: la lotta al terrorismo. Un regime dominato dall’esercito che ha ripreso il potere nel nome della stabilità dopo il lungo travaglio seguito alla caduta di Hosni Mubarak e l’ascesa al potere della Fratellanza Musulmana. Abbiamo lasciato fare, pensando che tutto sommato fosse la soluzione migliore dopo anni di instabilità. Ma il prezzo dell’accettazione acritica della restaurazione di una dittatura militare nel nome della “stabilità prima di tutto” è stato alto e ha comportato prima di tutto ignorare cosa quel “tutto” significasse, per gli egiziani in primis, ma anche per l’Europa e per l’Italia. Un paese, l’Egitto, in cui ogni sviluppo democratico, sociale ed economico è stato congelato in una “transizione” rimasta tale solo nella retorica, con una economia ritornata saldamente alle logiche clientelari dell’era Mubarak, le cui gravi lacune strutturali vengono coperte con lanci di megaprogetti molto più utili per la propaganda di regime che per la creazione di lavoro e crescita diffusa.
L’Egitto è oggi un gigante dai piedi d’argilla, una realtà che in passato abbiamo voluto ignorare in nome di quel concetto, così apparentemente “realista” e “saggio”, della “stabilità prima di tutto”. La morte di Giulio Regeni deve almeno essere il punto di partenza per portare la politica a riflettere sul significato di quel “tutto” a cui la stabilità è stata finora anteposta e quanto quel “tutto” conti per la nostra sicurezza, per la nostra capacità di sviluppare relazioni economiche stabili e crescenti e per la difesa dei nostri stessi interessi nazionali.
Deve portare la politica a riflettere davvero sul significato di “interesse nazionale” nella sua accezione più ampia e omnicompresiva, capace di andare finalmente ben oltre il breve termine e abbracciare orizzonti di lungo periodo. L’Italia non ha solo un interesse in un “partner strategico” stabile. Ha soprattutto l’interesse in un partner strategico in grado di sviluppare quegli strumenti economici, sociali e soprattutto democratici in grado di portare davvero beneficio agli egiziani, e con essi ai loro partner internazionali. Perché se prima ci illudevamo che la “stabilità prima di tutto” fosse almeno nel nostro interesse, anche se probabilmente non in quello del popolo egiziano, oggi, dopo la tragica vicenda di Giulio Regeni, è il momento di riconoscere che non solo non fa nemmeno il nostro interesse ma rischia di imprigionarci in un rapporto pericoloso.
Ripensare al concetto di stabilità, e a che tipo di stabilità vorremmo per questo nostro alleato di primo piano è perciò necessario e urgente. L’Italia, ben lungi dall’essere la Cenerentola delle relazioni internazionali, la grande esclusa dal tavolo delle questioni e degli attori che contano, dispone di leve importanti per far valere la propria posizione. È per questo che occorre tenere aperto il canale diplomatico, associando alla pressione politica sulla richiesta di verità sulla morte di Giulio la ridiscussione di un certo modo di fare affari. È per questo che occorre mettere in discussione il business as usual, che occorre convincere il regime che le vere riforme che potrebbero consacrarlo come leader e potrebbero riconsegnare un Egitto più stabile in senso inclusivo, sono le riforme che permettono la redistribuzione della ricchezza dalle mani nelle quali è sempre rimasta – passando attraverso rivoluzioni e contro-rivoluzioni – alla popolazione egiziana; che è necessario favorire lo sviluppo della piccola e media impresa; che le iniezioni di liquidità provenienti dal Golfo sono semplice metadone che non risolve i problemi strutturali di un’economia drogata e stremata; che i diritti umani non sono un vezzo con cui possono permettersi di intrattenersi i paesi che non sono sottoposti a minacce alla propria sicurezza, ma che al contrario sono la pietra angolare di uno stato moderno che intenda porsi come bastione della stabilità in una regione dove violenza e abdicazione alla propria umanità sembrano purtroppo diventati all’ordine del giorno.

Come mettere in pratica tutto ciò? Trovare la risposta a questa domanda, o perlomeno avviare una seria riflessione in merito, dovrebbe essere precisamente l’obiettivo del dibattito politico italiano. Al di là delle recriminazioni, della pressione, delle – legittime e giuste – richieste di verità, occorre domandarsi da che cosa è possibile ripartire, quali condizioni sia giusto introdurre, cosa si potrebbe fare per sostenere in maniera sostenibile i processi di transizione post-primavere arabe. Occorre prendere decisioni coraggiose, che partano dalla consapevolezza del fatto che, pur senza alcuna pretesa di superiorità, il nostro paese fa parte di una comunità di valori che riconosce diritti e giustizia come stelle polari dell’azione politica. Senza sconfinare nell’ingenuità e nell’idealismo, occorre riconoscere che è stata proprio l’affermazione di tali diritti, la volontà di mettere fine a guerre e violenze fratricide, a creare sul territorio europeo una sfera di stabilità, essa sì interpretabile in maniera inclusiva. Lo stesso pensiero deve guidarci oggi nel ripensare le relazioni con i nostri alleati: ripartiamo dalla vera natura del concetto di stabilità e non abdichiamo alla nostra natura; lo dobbiamo a Giulio, agli egiziani di oggi e alle generazioni future. Non è forse questa la missione più alta della politica?

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