Questo policy paper è stato scritto nel contesto di un workshop tenutosi a Roma il 5 maggio 2022, in collaborazione con la Friedrich Ebert Stuftung Italia. Scaricalo in formato pdf qui.
La regione del Mediterraneo è un hotspot del cambiamento climatico[1]. Questo nonostante la regione abbia contribuito solamente al 3% delle emissioni globali dal 1850 a oggi. Mentre i paesi europei hanno cominciato a ridurre le proprie emissioni nette a partire dal 1990, per i paesi della sponda sud ed est del Mediterraneo questo è il periodo in cui le emissioni sono più che raddoppiate rispetto al periodo precedente, raggiungendo quasi il livello europeo[2]. Il fenomeno del cambiamento climatico è ampiamente visibile nella regione. A oggi, circa il 40% della popolazione è stata esposta a siccità o eventi estremi riconducibili al cambiamento climatico[3]. Nel corso del 2020, diversi paesi tra cui Libano e Sudan sono stati colpiti da alluvioni e inondamenti, mentre ondate di calore e incendi si sono verificati in Libano, Giordania, Siria, Iraq, Algeria. Nel 2021, l’intera regione compresa tra l’Iran e il Medio Oriente è stata colpita da una violenta ondata di calore che ha portato a temperature record fino a 52°C, di circa sette gradi più elevate della media stagionale nella regione. Temperature simili sono state raggiunte nello stesso periodo anche nella città di Siracusa, in Sicilia, a testimonianza di quanto sponda nord e sponda sud del Mediterraneo siano già oggi ampiamente interconnesse anche dal punto di vista climatico, e di quanto i destini delle due regioni siano inestricabilmente legati.
In assenza di adeguate politiche di mitigazione – ovvero di taglio delle emissioni – il fenomeno del cambiamento climatico è destinato a intensificarsi. Sebbene sia molto difficile fare previsioni in questo campo, modelli e strumenti scientifici sempre più sofisticati consentono di formulare stime su aumento delle temperature e diminuzione delle precipitazioni, così come su fenomeni collegati quali innalzamento del livello dei mari, scarsità idrica e perdita di biodiversità. Gli scienziati dell’IPCC, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, hanno elaborato diversi scenari circa gli impatti del cambiamento climatico, ciascuno dipendente dal tipo e dall’intensità delle politiche di mitigazione messe in atto. In tutti gli scenari tracciati dall’IPCC, a prescindere dalle politiche di mitigazione implementate, la regione del Mediterraneo è destinata a subire un aumento delle temperature di circa 2°C tra il 2021 e il 2039[4]. Ciò perché gli effetti positivi delle politiche di mitigazione non si dispiegano nell’immediato, ma solamente in un secondo momento, dal 2039 in avanti. Quello che accade oltre questa data dipende invece dalle politiche che verranno messe in atto fin da oggi. La mancanza o la scarsità di azione sul fronte del cambiamento climatico – propria dei paesi industrializzati così come dei paesi in via di sviluppo – deriva proprio da questo lag tra azioni di policy e conseguenze: il cambiamento climatico non è in cima all’agenda dei policymaker mondiali perché percepito come un problema meno urgente rispetto alle molte altre questioni che si pongono alla loro attenzione. È invece fondamentale agire nel presente allo scopo di evitare maggiori danni nel futuro.
A seconda delle politiche messe in atto oggi, la regione è infatti destinata a conoscere nel 2059 un aumento delle temperature che varia tra i +2°C (in caso di implementazione di politiche di mitigazione molto stringenti) e i +4°C (nello scenario “business as usual”, ovvero mancanza di politiche di mitigazione)[5]. Quest’ultimo scenario comporterebbe un aumento delle giornate con temperature superiori ai 35°C, con punte di 47°C, non solo nei mesi estivi ma a partire da aprile fino a ottobre; sulla regione si abbatterebbero poi ondate di calore di maggiore durata e intensità, con punte di 56°C[6].
L’aumento delle temperature dà origine a conseguenze a catena, su più livelli: se ad un primo livello esso comporta una ridotta disponibilità di risorse idriche, quest’ultima ha a sua volta effetti su agricoltura e sicurezza alimentare; a loro volta, le ridotte possibilità di sostentamento in contesti agricoli, così come l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, possono dare origine a rivolte sociali e portare così a instabilità politica, che a sua volta può dare origine a fenomeni migratori o proliferazione della violenza e nascita di movimenti terroristici. Allo stesso modo, se ad un primo livello il cambiamento climatico comporta l’innalzamento del livello dei mari, nelle regioni costiere interessate, specie se densamente abitate come la città di Alessandria in Egitto o Tunisi in Tunisia, si avranno migrazioni interne e perdite nel settore del turismo; ancora una volta questi fenomeni possono dare origine a instabilità socio-economica e alle relative conseguenze. Proprio per questa capacità di generare effetti a cascata, il cambiamento climatico è ritenuto essere un “moltiplicatore delle minacce”[7]. Va dunque da sé che per scongiurare gli effetti negativi a valle, è necessario agire a monte cercando di arginare il fenomeno e ridurne le conseguenze negative.
Il nesso clima-energia
Insieme agli impatti del cambiamento climatico, la scienza permette oggi di stabilire un nesso molto stretto tra cambiamento climatico e politiche energetiche, a partire dal riconoscimento della responsabilità del settore dell’energia nel produrre emissioni che alterano gli equilibri climatici. Dal momento che ai combustibili fossili è attribuito il maggiore ruolo nella produzione di emissioni (l’89% delle emissioni di CO2 nel 2018), gli sforzi dei paesi industrializzati si sono concentrati sulla ricerca di fonti energetiche alternative e sulla decarbonizzazione delle proprie economie. Con il Green Deal , l’UE intende ridurre le proprie importazioni di petrolio del 23-25% al 2030 e del 78-79% al 2050, rispetto ai livelli del 2015. Allo stesso modo, le importazioni di gas naturale caleranno del 13-19% al 2030 e del 58-67%[8]. Questi target, formulati dall’Ue nel 2019, non tengono chiaramente conto dell’accelerazione imposta dall’attuale crisi nei rapporti con la Russia. Sebbene manchino ancora stime ufficiali, per quanto riguarda il gas si prevede una diminuzione delle importazioni molto più consistente e repentina.
La riduzione delle importazioni di combustibili fossili è destinata a trasformare le relazioni dell’Unione europea e dei suoi paesi membri con i paesi produttori ed esportatori: paesi come Libia, Algeria, paesi del Golfo e, in misura minore, Egitto, vedranno diminuire le proprie esportazioni di combustibili fossili verso l’UE, e con esse la rendita economica derivante. Per questi paesi, dunque, la sfida che si prospetta è duplice: sviluppare fonti di energia alternative per alimentare le proprie economie senza precluderne la crescita, e trovare nuove fonti di introiti per sostenere la spesa pubblica. La risposta ad entrambe queste sfide passa dalla diversificazione delle proprie economie e dalla transizione ecologica. La risposta al cambiamento climatico non è limitata dunque alle sole politiche in questo settore. La sfida, piuttosto, è molteplice e riguarda il piano economico, così come quello sociale e politico. Sostenendo la transizione energetica nei paesi del Mediterraneo, l’Unione europea e i suoi paesi membri possono dunque contribuire a ridisegnare le traiettorie di sviluppo economico e sociale nella regione in senso più inclusivo, con ricadute positive sulla stabilità politica e sui processi democratici.
Tutti i paesi della regione hanno firmato l’accordo di Parigi, e tutti lo hanno ratificato a esclusione di Libia, Yemen e Iran. Come richiesto dall’accordo, i paesi firmatari si sono dati dei target di riduzione delle emissioni (Nationally Determined Contributions, NDCs), distinguendoli in condizionali e non condizionali. Mentre il raggiungimento dei primi è subordinato al sostegno economico-finanziario internazionale, gli impegni non condizionali non sono subordinati ad alcunché, se non alla volontà politica del paese firmatario. Considerati il limitato spazio fiscale dei paesi della regione e la limitatezza delle risorse economiche a disposizione (con l’eccezione dei paesi del Golfo), la maggior parte degli impegni ricade nella prima categoria. Allo stato attuale, tuttavia, solamente il Marocco risulta in linea con i propri impegni di riduzione delle emissioni. Il sostegno della comunità internazionale, e in particolar modo dell’Unione europea, alla transizione nella regione appare dunque fondamentale.
Le ripercussioni della guerra in Ucraina: rischi e opportunità per la transizione ecologica nel Mediterraneo
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha dato avvio a diverse dinamiche, che hanno visto l’Unione europea acquisire quella dimensione geopolitica che la commissione Von der Leyen aveva indicato nel 2019 tra le proprie ambizioni e priorità. Elemento fondamentale del nuovo calcolo strategico europeo è la dimensione della sicurezza energetica, strettamente legata alla volontà di ridurre e, in prospettiva, azzerare la propria dipendenza dalla Federazione russa. Il concetto di sicurezza energetica, che già negli anni scorsi era stato oggetto di una revisione tesa a includere non solo la sicurezza degli approvvigionamenti di risorse energetiche ma anche quella di materiali critici, così come la resilienza delle catene del valore, è oggi destinato a mutare ulteriormente in conseguenza della rottura delle relazioni con la Russia. La nuova Strategia internazionale per l’energia, che verrà presentata il prossimo 18 maggio dalla Commissione europea, includerà la ridefinizione di tale concetto, così come le linee guida per l’engagement globale dell’Unione europea e dei suoi paesi membri sul fronte dell’energia. Insieme alla Strategia, verrà presentata anche la forma finale del piano di azione REPowerEU introdotto lo scorso 8 marzo come risposta immediata all’esigenza di ridurre la dipendenza europea dalla Russia[9]. Il piano introduce una strategia basata su due pilastri: la diversificazione degli approvvigionamenti in modo da diminuire e, al 2030, azzerare la dipendenza dalla Russia, e l’accelerazione su sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica, in modo da diminuire la dipendenza europea dai combustibili fossili.
La regione del Mediterraneo riveste un ruolo fondamentale nell’implementazione del piano REPowerEU. Da un lato, paesi come Algeria ed Egitto, che già ricoprono il ruolo di esportatori di gas verso l’UE, vengono considerati fondamentali per la diversificazione delle forniture. Dall’altro, la regione viene considerata di particolare interesse per lo sviluppo di una partnership su rinnovabili e idrogeno verde. La serie di accordi conclusi dal governo italiano e da ENI in Algeria ed Egitto sembrano confermare il ruolo di questi due paesi come esportatori chiave. Tuttavia, dalle scelte prese in questo particolare frangente dipende la traiettoria futura della transizione energetica nella regione, e con essa lo scenario futuro relativo al cambiamento climatico.
Guardando all’Algeria e al quadrante del Mediterraneo occidentale, è possibile formulare alcune osservazioni. In primo luogo, la produzione algerina di gas naturale risulta stagnante da diversi anni: per aumentarla sensibilmente sarebbero stati – e sarebbero tutt’oggi – necessari ingenti investimenti[10]. Negli anni passati, tuttavia, nessuna major occidentale era pronta ad attuare questi investimenti, in parte per la scarsa redditività del settore oil&gas algerino, in parte perché non in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione e con la decisione europea di non finanziare più progetti nel settore dei combustibili fossili. In secondo luogo, un’ampia parte della produzione algerina è destinata a coprire la domanda interna, in crescita. Unendo dunque una produzione stagnante e una domanda interna in crescita, si ottiene uno spazio limitato di crescita delle esportazioni. I 9 bcm aggiuntivi di gas naturale al 2024 ottenuti dall’Italia con l’accordo dello scorso 11 aprile derivano dalle esportazioni “risparmiate” dal governo algerino dopo la chiusura del gasdotto Maghreb-Europe che univa l’Algeria alla Spagna attraverso il Marocco. La rottura delle relazioni con il Marocco decisa dall’Algeria nel novembre 2021 – il culmine di relazioni tese da decenni – ha portato alla chiusura da parte di Algeri del tratto che collega Algeria e Marocco. Sebbene l’Algeria abbia in un primo momento garantito alla Spagna la continuità degli approvvigionamenti, la decisione da parte del governo Sanchez di assecondare la posizione marocchina nella disputa sul Sahara occidentale che oppone Algeri e Rabat ha indispettito la leadership algerina, che ha minacciato Madrid dapprima di aumentare il prezzo del gas, e in un secondo momento di interrompere in toto le forniture. Sebbene la Spagna sia dotata di ampia capacità di rigassificazione e possa dunque ricevere e stoccare le esportazioni statunitensi di LNG aggiuntive che Washington si è impegnata a consegnare, la fornitura di gas incontra però un collo di bottiglia quando raggiunge i Pirenei, per via della scarsa capacità esistente di connessione tra Spagna e Francia. A meno di nuovi investimenti in questo settore, Madrid non può dunque contribuire in maniera significativa alla sicurezza energetica europea. Inoltre, le vicissitudini tra Spagna e Algeria ci ricordano quanto i paesi europei siano vulnerabili alle richieste arbitrarie dei paesi produttori.
Per quanto riguarda invece l’Egitto e il quadrante del Mediterraneo orientale, la crisi recente e la ricerca europea di forniture alternative ha riacceso le speranze del Cairo di diventare l’hub regionale per l’esportazione del gas naturale. Allo stato attuale, però, la capacità di esportazione egiziana è pari solamente a 12,2 bcm: questo in parte perché, come in Algeria, la maggior parte della produzione è destinata a coprire il fabbisogno interno, ma soprattutto perché questa è la quantità processabile dai due impianti LNG di Damietta e Idku. L’obiettivo egiziano è quello di esportare tramite i propri impianti anche gas proveniente da altri giacimenti sottomarini nel Mediterraneo orientale, appartenenti ad altri paesi. Già oggi Il Cairo esporta gas israeliano proveniente dai giacimenti Leviathan e Tamar, e in prospettiva, intende diventare export hub anche per i giacimenti ciprioti di Aphrodite. In questo contesto, è tornato al centro del dibattito il gasdotto EastMed che, collegando Israele, Cipro, l’isola greca di Creta e – tramite l’estensione Poseidon – l’Italia, permetterebbe di aumentare i flussi diretti in Europa. La costruzione di EastMed, tuttavia, è stata finora rimandata per via della scarsa viabilità economica e commerciale del progetto, oltre che delle tensioni geopolitiche a cui darebbe adito. L’entità modesta dei giacimenti non giustificherebbe infatti costi decisamente elevati (6 miliardi di euro) a fronte di prezzi del gas fino agli scorsi mesi molto bassi e della diminuzione della domanda di gas prevista dagli obiettivi europei di decarbonizzazione. Inoltre, il gasdotto escluderebbe la Turchia, che ha infatti in passato intrapreso azioni ostili per rivendicare la propria sovranità su determinate porzioni di acque territoriali contese a Cipro, e il proprio diritto a essere parte della grande partita del gas nel Mediterraneo orientale.
Tanto per il caso algerino quanto per quello egiziano, la decisione più importante che i paesi europei sono chiamati a prendere oggi è quale tipo di futuro vogliano disegnare per la regione, ovvero su che cosa vogliano investire. In un editoriale congiunto (tradotto in italiano il 3 maggio sul quotidiano La Repubblica[11]), l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza UE Josep Borrell e il presidente della Banca Europea degli Investimenti Werner Hoyer prendono una posizione molto netta: “la ricerca di fornitori di gas naturali diversi — per quanto necessaria nel breve periodo — non deve rinchiuderci in una nuova dipendenza a lungo termine, con grossi investimenti in infrastrutture per il trasporto di combustibili fossili. Questo sarebbe oneroso, catastrofico per il pianeta e alla fine dei conti inutile, viste le opzioni più rispettose del clima che sono disponibili”. L’editoriale prosegue con l’impegno da parte della BEI a sostenere, da oggi al 2030, 1 miliardo di euro di investimenti in progetti climatici e sostenibilità ambientale: “l’Unione Europea è pronta a sostenere la comunità internazionale nello sforzo di mettere fine alla dipendenza dai combustibili fossili.” Se dunque la situazione attuale fa sorgere il rischio di rallentare (ulteriormente) la transizione ecologica nel Mediterraneo attraverso nuovi investimenti nel settore fossile, dall’altra essa apre l’opportunità di accelerare l’azione in questo senso, attraverso investimenti mirati allo sviluppo delle enormi potenzialità di energia rinnovabile offerte dalla regione.
Sulla base di queste considerazioni, Italia e Germania dovrebbero agire in maniera congiunta per adottare le seguenti indicazioni di policy:
Assumere la leadership a livello UE nella costruzione di partnership per la giusta transizione (“Just Energy Transition Partnerships”, o JETPs) nei paesi esportatori di combustibili fossili, a partire da Algeria ed Egitto. Su modello della partnership offerta al Sudafrica per la transizione dal carbone all’energia pulita in occasione della COP26 di Glasgow, Italia e Germania dovrebbero guidare la costruzione di una simile piattaforma per la transizione dal gas alle rinnovabili nei paesi del Mediterraneo. L’Italia, forte della propria storica proiezione nella regione, potrebbe avviare il dialogo con i paesi della sponda sud del Mediterraneo in questo senso, mentre la Germania, come presidente del G7, potrebbe guidare la costruzione del consenso necessario a livello internazionale per la raccolta dei finanziamenti necessari.
Aumentare in maniera significativa gli interventi sul fronte dell’adattamento. Come dimostrano i rapporti IPCC, la regione del Mediterraneo è destinata a risentire significativamente degli impatti del cambiamento climatico da qui al 2039 a prescindere dalle politiche di mitigazione messe in atto da oggi in avanti. Per questo motivo, è necessario affiancare a stringenti politiche di riduzione delle emissioni anche un ampio supporto ad azioni di adattamento e costruzione di resilienza, come ad esempio la costruzione di barriere architettoniche per la protezione delle aree costiere dagli allagamenti, l’adozione di metodi di irrigazione a goccia, la costruzione di abitazioni anfibie e di sistemi di allarme precoce (“early-warning mechanisms”).
Agire in modo unitario in ambito europeo per supportare progetti infrastrutturali green. Anziché investire in nuove infrastrutture per il trasporto di combustibili fossili come il gasdotto EastMed, Italia e Germania dovrebbero agire in maniera congiunta per lo sviluppo delle interconnessioni elettriche, in particolar modo l’Euro-Asia Interconnector e l’Euro-Africa Interconnector. A differenza delle infrastrutture fossili, infatti, questo tipo di interconnessioni non è destinata a divenire stranded asset e, al contrario, incentiva lo sviluppo di rinnovabili per la produzione di elettricità. L’interconnessione delle reti elettriche presenta al contempo un’importante dimensione geopolitica: connettere l’area Mediterranea alla rete elettrica europea, e dunque ai suoi standard, ha infatti una notevole valenza strategica, specialmente a fronte della crescente competizione cinese in questo settore. Oltre a connettere la rete elettrica mediterranea a quella elettrica, è necessario aumentare gli sforzi per l’integrazione della rete elettrica regionale. In questo modo, sarà possibile tra le altre cose ovviare ai cronici problemi di mancanza di elettricità nelle ore di punta sfruttando i diversi fusi orari.
[1] Tuel, A and Eltahir, EAB. 2020. “Why Is the Mediterranean a Climate Change Hot Spot?.” Journal of Climate, 33 (14)
[2] Co2 emissions (kt), Middle East & North Africa, European Union, World Bank (https://data.worldbank.org/indicator/EN.ATM.CO2E.KT?locations=ZQ-EU)
[3] UNDP, Climate Change Adaptation in the Arab States – Best practices and lessons learned, Bangkok, 2018 (https://www.undp.org/publications/climate-change-adaptation-arab-states).
[4] Varela, R., Rodríguez-Díaz, L. and de Castro, M., ‘Persistent heat waves projected for Middle East and North Africa by the end of the 21st century’, Plos One, 2020 (https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0242477).
[5] World Bank, Climate Change Knowledge Portal, Middle East and North Africa, projections.
[6] Zittis, G., ‘Business-as-usual will lead to super and ultra-extreme heatwaves in the Middle East and North Africa’, Nature, March 2021 (https://www.nature.com/articles/s41612-021-00178-7).
[7] Center for Naval Analyses, National Security and the Threat of Climate Change, Alexandria, VA, United States, 2007 (https://www.cna.org/cna_files/pdf/national%20security%20and%20the%20threat%20of%20climate%20change.pdf).
[8] Leonard, M., Pisani-Ferry, J., Shapiro, J., Tagliapietra, S., and Wolff, G., ‘The geopolitics of the European Green Deal’,
Policy Brief, European Council on Foreign Relations, 3 February 2021 (https://ecfr.eu/publication/the-geopolitics-of-theeuropean-green-deal/).
[9] REPowerEU: Joint European Action for more affordable, secure and sustainable energy, COM/2022/108 final, 8 marzo 2022 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A108%3AFIN)
[10] Fakir I., ‘Given capacity constraints, Algeria is no quick fix for Europe’s Russian gas concerns’, Middle East Institute, 8 marzo 2022 (https://www.mei.edu/publications/given-capacity-constraints-algeria-no-quick-fix-europes-russian-gas-concerns)
[11] Borrell J., Hoyer W., ‘La via green alla sicurezza’, La Repubblica, 5 maggio 2022 (https://www.repubblica.it/commenti/2022/05/02/news/cosa_serve_alleuropa_per_unenergia_pulita_e_giusta-347833419/)
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