E’ giusto dire populismo?

Di Mario Rodriguez*

Che utilità abbiamo a usare il termine populismo? A cosa ci serve? Per comprendere, per adattarci al tempo che viviamo, per elaborare e mettere in pratica misure di contrasto, certo. Ma la domanda da porsi è se l’uso di un termine dalla carica simbolica così forte, ci aiuti a definire i fenomeni di cui stiamo facendo esperienza? Populismo è una parola nata quando non ne esistevano altre ancora più essenziali a identificare il nostro tempo: disintermediazione, globalizzazione, mediatizzazione, interdipendenze, per citarne alcune.

Uno dei saggi ateniesi Misone consigliava, secoli fa, di indagare le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole. Ecco allora un paradosso: non possiamo che usare parole vecchie per descrivere fenomeni nuovi. Viviamo e, per affrontare i problemi, dobbiamo definirli. La definizione è infatti essenziale per arrivare alla sua soluzione, per mettere in atto comportamenti adeguati agli obiettivi che si perseguono. Per di più i fenomeni sociali non sono problemi matematici. La complessità sociale è più complessa di quella matematica. Le soluzioni possibili sono molte di più. Ciò nonostante abbiamo bisogno di definire i problemi e trovare parole o metafore che ci aiutino a prendere le misure, a mettere in campo comportamenti appropriati.

Successe così anche con il fascismo che peraltro fu un termine usato dai protagonisti stessi e non una definizione data dagli osservatori. Ci vollero anni per definire il fenomeno in modo che fosse possibile la convergenza dei comportamenti degli antifascisti. Nel ‘29 fu difficile per i comunisti italiani convincere i sovietici e gli altri aderenti alla III Internazionale che in Italia accomunare Matteotti e Mussolini usando il termine “socialfascismo” non era solo difficile ma controproducente. E solo dopo la metà degli anni ‘30 si adottò una definizione del fascismo che permise di lavorare per un fronte antifascista più ampio che comprendesse anche i socialisti e socialdemocratici. Si badi bene che la definizione del fascismo ebbe una utilità pratica indiscutibile ma oggi non è più usata (condivisa). Anche allora era insufficiente, approssimativa ma era migliore della precedente ed ebbe conseguenze pratiche apprezzabili.

Anche allora gli schemi interpretativi avevano forzato la comprensione della realtà. Si era partiti dalle parole, dai concetti, e non dalla realtà. Non dobbiamo fare lo stesso errore oggi con populismo. Dobbiamo partire dalla descrizione dei fenomeni cercando il più possibile di non farci condizionare (almeno essendone consapevoli) dagli schemi interpretativi che non possono che condizionare la nostra analisi.

“Al lupo, al lupo”.

Temo che l’uso del termine populismo sia una sorta di “al lupo al lupo!” Accade qualcosa che non ci aspettavamo e che ci preoccupa e lanciamo un allarme. Sembra un allarme che funziona perché molti hanno paura del lupo. I nostri bambini (la nostra comunità, il nostro popolo) sono stati educati con l’idea che il lupo è cattivo. Si pensa che se gridiamo “al lupo, al lupo”, i pigri, i distratti si mobiliteranno, ci capiranno, ci voteranno. Così continuiamo a considerare i coinvolti dal fenomeno con paternalismo e aristocraticismo e ci ostiniamo a non riconoscerli come portatori di visioni diverse non solo da rispettare ma da comprendere.

Ma il problema è che gli “altri” non vedono il lupo, anzi a qualcuno il lupo piace pure. Gli piace il selvaggio, il naturale, non importa che non abbiano pecore o galline da difendere, loro vivono in città. Il lupo è quello dei cartoon o del Wwf! Però è il loro modo di vivere le cose. Quando sentono “al lupo, al lupo” pensano che non sia un problema per loro e che lo si faccia solo in modo strumentale.

Allora bisogna ripartire dalle “cose stesse”, dai fenomeni che viviamo e che cataloghiamo tra le cause del populismo e quindi tra i problemi da risolvere. Cerchiamo di usare con parsimonia la parola populismo, vediamo se ce ne sono altre più connotative per spiegare cosa avviene. Anche perché populismo, come detto, è parola vecchia e usarla per descrivere fenomeni nuovi non aiuta a comprendere i fenomeni stessi.

Allora quali fenomeni stiamo vivendo?

In primo luogo credo sia necessario descrivere bene come si comportano coloro che definiamo “populisti”, che biografie hanno, come si comportato, che decisioni assumono, come vivono. Che tipi di lupi sono? Mangiano davvero le galline?

Dobbiamo mettere bene in evidenza perché per noi i populisti sono un pericolo per la democrazia. Non possiamo dare per scontato che l’uso del termine generi senso e consenso.

Io direi che il populismo attuale rappresenta prima di tutto la fase nuova di un contrasto antico che nasce con la cosiddetta democrazia dei moderni (non è un caso che la Casaleggio Srl scomodi Rousseau). Non un’eccezione ma il ritorno di un conflitto connaturato alla democrazia, il rapporto con il demos appunto. Dice Müller “Il populismo non è né la parte autentica della moderna politica democratica, né un tipo di patologia causata da cittadini irrazionali. È l’ombra permanente della politica rappresentativa.”

È il riapparire di persone che “parlano” in nome delle persone in carne e ossa e che criticano le élite. Ma non tutte le critiche alle élite sono populismo. E non tutti i populisti sono contro il principio della rappresentanza politica; molti insistono sul fatto che soltanto loro sono i rappresentanti legittimi, i veri interpreti della gente, delle persone comuni”. Qui sta il nocciolo duro della loro “illiberalità” la negazione del pluralismo.

Poi dobbiamo capire e mettere bene a fuoco perché questo fenomeno è riapparso negli anni recenti valorizzando soprattutto le differenze e le peculiarità del nostro tempo.

Tra questi io richiamerei brevemente: le conseguenze della quarta rivoluzione tecnologica; la diffusione di nuovi modi di vivere e lavorare; nuovi livelli di education e di informazione; la mondializzazione dell’economia e i processi di globalizzazione; il consolidamento delle interdipendenze; l’affermazione della multipolarità negli equilibri geo politici; la secolarizzazione; la crisi dei sistemi gerarchici che ancora reggevano alla fine della seconda guerra mondiale; la crisi dei sistemi di autorità connessi alla gerarchia; l’avvento della società individualizzata di massa. E quindi il crescente conflitto tra principio di competenza e principio di rappresentanza, appunto tra élite e popolo. Tutto questo porta all’accrescimento delle difficoltà di funzionamento delle società democratiche peraltro già avviatesi. E quindi alle decrescenti performance dei sistemi politici in un contesto non solo di crisi economica ma di ridefinizione degli equilibri su base mondiale.

Le persone vivono un disagio caratterizzato dalla fine della certezza del miglioramento delle loro condizioni di vita che aveva caratterizzato tutta la seconda metà del 900 e che era iniziata con lo slancio fondamentale della pace e della ricostruzione post bellica.

Il ritorno (non nascita perché non è un fenomeno nuovo) della sfiducia per le élite è strettamente legato al fatto semplice ma concreto che “le cose non vanno”. Il consenso ai partiti di massa della seconda metà del novecento può essere considerato certo adesione a forme culturali (religioni civili) ma era fortemente ancorato al fatto che le cose funzionavano, la vita quotidiana migliorava per tutti (chi più e chi meno, ovviamente).

Allora la contrapposizione al populismo parte dal rimettere in moto le istituzioni, il loro funzionamento, per poter arrivare alla soluzione (parziale e provvisoria, certo) dei problemi della vita quotidiana. Le persone credo chiedano di essere governate bene, di essere messe in condizione di vivere nel modo migliore auspicabile. In generale le persone (tranne un piccola ma significativa parte che va coinvolta) non credo chiedano di essere rappresentate o meglio credo che per loro essere rappresentate significhi vedere le proprie preoccupazioni prese in considerazione se non risolte del tutto. E si mobilitano soprattutto quando le cose non vanno! Per questo credo che il tema del funzionamento delle istituzioni democratiche e delle politiche pubbliche sia essenziale. Non credo che sia utile soffermarsi su un dibattito sulle credenze ma credo sia meglio concentrarsi sugli effetti pratici delle credenze sulla vita delle persone.

Una democrazia che funziona oggi significa però essere consapevoli che governare comporta anche governare le opinioni che i governati hanno dei governanti. Perché la nostra non è solo la società mediatizzata ma è la società dell’auto-comunicazione di massa.

Come costruiamo quindi democrazie “funzionanti”? Come ci occupiamo di governance e non solo di government? Abbiamo inventato due parole diverse perché abbiamo bisogno di mettere in luce due aspetti diversi del funzionamento delle istituzioni. Il governo formale e il governo concreto reale, quello che succede davvero.

Il contrasto al populismo si fa quindi in primo luogo comprendendone le cause o meglio comprendendo le ragioni di coloro che lo fanno vivere e secondariamente mettendo in atto politiche concrete che entrando nella vita quotidiana delle persone inducano un cambiamento nelle percezioni diffuse.

 

 

*Mario Rodriguez è docente di Comunicazione Pubblica presso l’Università degli Studi di Milano e fondatore della MR & Associati. Tra le altre opere, è autore, con Nicolò Addario, del libro “Comunicare la Politica, Consenso e Dissenso nell’Era di Internet”

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