Una sorta di enclave non ancora comunitaria, circondata dall’Ue e già europea di fatto.Una regione le cui leadership, istituzioni e cittadini sono impegnati da anni a percorrere un percorso difficile, pieno di ostacoli, dai tempi incerti e insidioso, anche per l’Unione stessa. Potrebbe bastare questa immagine per descrivere il cammino comunitario dei Balcani occidentali verso l’Unione Europea.
Un tema – quello dell’allargamento dell’Ue – che torna centrale in queste settimane, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che da un lato ha portato negli uffici di Bruxelles le richieste di adesione di Ucraina, Moldavia e Georgia; e dall’altro fa temere la riapertura di fratture proprio nei Balcani. Albania, Serbia, Macedonia del Nord, Montenegro, Bosnia Erzegovina e Kosovo. Sono i 6 paesi – circa 18 milioni di abitanti – che hanno, in tempi diversi formalmente chiesto di aderire all’Unione Europea, in risposta a quella “Prospettiva europea” ribadita dal Consiglio europeo di Salonicco del 2003.
Al momento, Serbia e Montenegro hanno aperto i negoziati di adesione, Albania e Macedonia del nord sono candidati in attesa di aprire formalmente i negoziati mentre Kosovo e Bosnia Erzegovina sono ancora potenziali candidati all’ingresso nell’Ue. Un’Unione che – peraltro – non potrà mai sentirsi completa senza i paesi balcanici che europei lo sono già per storia cultura, geografia, e che da anni bussano alle porte dell’Europa. Una regione – quella dei Balcani occidentali – strategica e centrale da sempre per le vicende del vecchio continente. Terra di confine e incontro di culture, all’interno del quale convivono da secoli cristiani e musulmani, la geografia considera i Balcani occidentali, ponte tra Mediterraneo e Oriente, l’ultimo lembo di Europa prima della Regione asiatica. Fiumi e montagne inospitali, territori ambiti e conquistati, al centro dei giochi di potere tra oriente e occidente.
E se secoli fa erano le potenze europee e l’impero ottomano a contendersi i Balcani, oggi la storia sembra riportare la regione indietro nel tempo. Da una parte la voglia di Europa e di integrazione, dall’altra le sirene russe, cinesi e turche che provano a insediarsi e a influenzare i paesi e le economie fragili dei candidati in attesa di una prospettiva europea. E l’Unione Europea – con le sue istituzioni – che lavora per integrare questi paesi, ma che deve gestire veti e difficoltà che inevitabilmente ci sono, dinnanzi alla possibilità di un’Europa a 29 e 31 e che non ha ancora deciso di ripensarsi e riformarsi. Dubbi condivisibili. Se non funziona un’Europa a 27, come possiamo immaginare un’Europa che prende decisioni di politica estera con 29 o 31 membri ? Per queste e altre ragioni, legate a veti e questioni bilaterali, il processo di allargamento non prevede una timeline certa. Il Summit di Brdo in Slovenia dello scorso ottobre tra i 27 e i 6 paesi candidati ha certificato lo stallo.
La Commissione europea spinge per delineare una strategia chiara di integrazione, gli Stati membri pongono continui ostacoli, alcuni per ragioni di mera opportunità, come Francia e Olanda, mentre altri, come la Bulgaria, puntano su questioni bilaterali per opporre veti. Con il risultato di lasciare chissà per quanto tempo ancora i paesi candidati e potenziali candidati in un limbo che non aiuta l’Europa in primis, che rischia di perdere i suoi Balcani e di trovarsi i suoi competitor sull’uscio di casa. Quella di integrare i Balcani ed esercitarvi “soft power” appare onestamente, una sfida geopolitica e strategica imponente per l’Unione Europea, che non può tuttavia sottrarsi a quest’impegno con la storia, per la stabilità della regione primariamente, maggiormente dopo che la guerra è tornata in Europa.
In parte dell’opinione pubblica europea, prevale l’idea che i Balcani – nei cui territori si è consumata l’ultima guerra nei confini europei prima dell’invasione russa di Kiev – siano ancora una regione problematica e che i suoi cittadini siano troppo diversi, per questioni religiose e culturali, dal resto dell’Unione. Pregiudizi che possono essere giustificati dall’esperienza che l’Unione europea e i suoi cittadini hanno maturato in seguito all’allargamento a est del 2004, quando è prevalsa, in quel momento storico, la necessità di dare una prospettiva europea agli Stati dell’ex blocco comunista in paesi che probabilmente non erano ancora pronti ad abbracciare il progetto europeo. Da allora l’Unione è vittima di quella “enlargement fatigue” che ancora la condiziona.
Ma anche questa volta, come accaduto in passato, aprirsi ai Balcani è prioritario per l’Unione stessa, per molteplici motivi, a partire dalle questioni geopolitiche alla sicurezza fino all’economia e al commercio, senza dimenticare la voglia di integrazione e l’energia dei giovani balcanici che possono rappresentare linfa vitale a un’Unione che sembra perdere appeal agli occhi degli europei.
L’Unione europea ha avuto altro a cui pensare, si potrebbe obiettare. Da Brexit alle questioni migratorie, i rapporti con il vicinato russo e la competizione con la Cina, che prova a inserirsi nei Balcani per completare la sua Via della Seta, fino agli ultimi due anni che hanno visto l’Unione, come tutti gli attori internazionali, concentrarsi sugli effetti economici e sociali della pandemia.Problemi che hanno distratto l’Europa che rischia seriamente di veder prevalere altri attori nella regione dei Balcani, pronti a sfruttare la debolezza dei paesi candidati. Candidati che – peraltro – hanno già compiuto passi importanti verso la democrazia e il multilateralismo con l’adesione alla Nato, come nel caso di Albania, Nord Macedonia e Montenegro.
Ma pur se pieno di ostacoli e senza tempi certi, l’allargamento dell’Ue a Serbia, Montenegro, Albania e Nord Macedonia è un processo irreversibile che dovrà – nel rispetto di differenze, storie e culture – concretizzarsi. Un ruolo importante, per la riuscita di questo processo, lo svolge l’Italia, interessata per questioni geografiche, economiche, culturali e strategiche alla piena “europeizzazione” dei Balcani, nella cui regione ha sempre esercitato influenza, specie tra gli anni ‘90 e 2000. Il nostro paese, primo partner commerciale di Serbia e Albania, nonché dirimpettaio nell’Adriatico che ci separa dai Balcani, è – con tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi anni – sponsor politico e convinto sostenitore dell’allargamento dell’Europa ai Balcani. Perché solo con i “suoi” Balcani occidentali l’Unione europea il progetto di integrazione regionale più grande e riuscito di sempre potrà dirsi davvero completa.
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