Questa breve analisi si concentra sull’impatto dell’emergenza Covid-19 sui negoziati in corso fra UE e Regno Unito per stabilire i dettagli della futura relazione post Brexit. Nonostante l’iniziale volontà di entrambe le parti di procedere con i negoziati anche durante l’epidemia, pare ormai evidente che le condizioni necessarie per un lavoro business as usual siano venute meno. Quali sono le possibili ripercussioni di questa interruzione? Londra potrebbe cambiare atteggiamento dopo l’aver affrontato un’emergenza globale di tale portata con un piede fuori dall’architettura UE? Si rafforza il rischio no deal?
I vari round dei negoziati
Il primo round di negoziati, a marzo, si era chiuso con le dichiarazioni del capo negoziatore UE Michel Barnier secondo cui erano emerse “serie divergenze” con le controparti britanniche. Da allora sono passate diverse settimane senza progressi, data l’ovvia priorità dell’elaborazione di contromisure da attuare per l’emergenza sanitaria. Inoltre, come riportato da Politico.eu, i primi tentativi di negoziati in videoconferenza sono stati rallentati sia dai dubbi di diversi negoziatori, secondo i quali tale modalità di dialogo si sarebbe rivelata lenta e controproducente, sia da preoccupazioni relative alla sicurezza delle comunicazioni.
Così, il secondo e terzo round di negoziati nei quali si sarebbe discussa la futura relazione fra l’Unione ed il Regno Unito sono stati cancellati dopo lo scoppio della pandemia: successivamente i due principali attori, Michel Barnier ed il capo negoziatore britannico David Frost, hanno dichiarato di aver avuto sintomi riconducibili al virus covid-19. Solo nell’ultima settimana di aprile è stato possibile riprendere i colloqui, articolatisi in più di 40 sessioni in videoconferenza da parte di 10 team di negoziatori.
Ora un’altra importante scadenza è al centro dall’attenzione: il 30 giugno è infatti il termine entro il quale Londra dovrebbe notificare la sua eventuale volontà di richiedere un’estensione del periodo di transizione, il cui termine è attualmente fissato al 31 dicembre 2020. Nonostante i molti pareri contrari degli stessi esperti britannici, Downing Street, come ripetuto più volte da Frost, “non desidera estendere il periodo di transizione, in quanto il lavoro può essere completato entro la fine dell’anno”, anche in piena crisi coronavirus. Il rifiuto di Boris Johnson nel richiedere un’estensione – che protrarrebbe il periodo nel quale al Regno Unito si applicano le norme comunitarie senza che esso goda di rappresentanza nelle istituzioni – potrebbe risultare in un maggior rischio di no deal, nonostante la stipula di un accordo rimanga lo scenario più probabile.
La fase di impasse tra accuse e giustificazioni
Siamo quindi ora in una fase di impasse, con entrambe le parti che si accusano vicendevolmente di ritardare i negoziati. Secondo Barnier il governo britannico starebbe “facendo scorrere il tempo rallentando le discussioni più importanti”, mentre ci si attende un appello di Boris Johnson alla presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen con l’obbiettivo di coinvolgere maggiormente i leader europei nel negoziato, nella speranza che un approccio top level sblocchi la situazione.
Mentre comunità di cittadini e lavoratori europei residenti nel Regno Unito denunciano un mancato o difficile accesso agli strumenti di relief economico, sulla base di ostacoli burocratici legati allo ‘stato di residenza’, rischiando di vedere così violati i loro diritti, pare sempre più ovvio che – nelle parole di un diplomatico di Bruxelles – “questo approccio da scommettitori non porterà ad un accordo commerciale”. La stessa fonte diplomatica, in riferimento alla possibilità ventilata da parte di Bruxelles di estendere il periodo di transizione di uno o due anni, ha affermato che “il continente è travolto dal virus quanto la Gran Bretagna, quindi non scommetterei sul fatto che i leader abbiano troppo tempo per soddisfare i capricci di Londra […] l’accordo con UK è necessario, ma non così urgente”.
Cosa spinge ad applicare una Brexit no deal?
Sorge quindi spontaneo chiedersi cosa spinga il governo di Londra ad opporsi così ostinatamente ad una estensione del periodo di transizione. La risposta risiederebbe nella politica interna, in seno al paese ma anche al partito conservatore. Secondo il parere di due ricercatori del Federal Trust (think tank sul federalismo specializzato nelle relazioni tra Regno Unito e Unione europea), negli ultimi 4 anni il partito conservatore si sarebbe trasformato in una semplice associazione nella campagna pro-Brexit, subordinando alla causa tutte le altre attività.
La nuova leadership quindi, realmente o solo opportunisticamente euroscettica e consapevole del piccolo margine che ha consentito la vittoria del 2016, avrebbe tutta la volontà di chiudere il prima possibile il processo Brexit, anche con un no deal. La prospettiva di un’estensione dei negoziati di uno o due anni obbligherebbe la leadership del partito a confrontarsi con condizioni politiche nuove ed avverse, secondo gli analisti: “una conclusione di Brexit rapida e ostile potrebbe essere la loro migliore garanzia che i cittadini britannici non cambino opinione sulla questione europea al risveglio dalla pandemia”.
Meglio ancora se fosse possibile incolpare Bruxelles per l’interruzione dei negoziati e mascherare il collasso dell’economia tra gli effetti del virus. “L’opinione pubblica post-Covid in UK sarà più rispettosa degli esperti (della scienza, dei fatti -ndr) e dei migranti di quanto era cinque anni fa” continuano gli esperti del Federal Trust, accusando aspetti fondamentali della campagna per il leave del 2016, fondata su “disonestà intellettuale e manipolazione propagandistica […] dove l’arma preferita erano vuoti slogan e i fatti non contavano”. In sostanza, concludono, “oggi la Brexit è il partito conservatore, ed il partito conservatore è la Brexit”.
Inoltre, Johnson è stato eletto con una campagna fondata sullo slogan “get Brexit done”: forse l’unica promessa nella campagna pro-Brexit realmente realizzabile, ma sicuramente una magra consolazione per i cittadini che rischiano di affrontare la difficile situazione economica prevista per dicembre 2020.