“Gli spiriti maligni non sono banditi per sempre dall’Europa”. Nel giorno in cui ricorre il 78° anniversario dalla promulgazione in Italia delle leggi razziali, dovremmo sentire il dovere di rileggere con attenzione questo avvertimento del leader cristiano-popolare Helmut Kohl. Egli fu uno dei grandi protagonisti della riunificazione della Germania dopo il crollo del muro di Berlino. Ma è proprio dalla parte orientale di quella che fu per più di mezzo secolo una cortina di ferro, che soffia oggi un vento minaccioso.
Per quanto la formulazione del suo quesito risultasse giuridicamente confusa e improbabile, il referendum ungherese del 2 ottobre scorso non è stato purtroppo una carnevalata. Il suo significato politico è infatti serio e minaccioso, poiché sottende al consolidamento del progetto politico del primo ministro Viktor Orban e, più di una strenua difesa della sovranità nazionale, assume i contorni di uno spiccato nazionalismo.
Seppure il referendum non si sia rivelato lo strumento giusto per consolidare il progetto del premier magiaro, più di tre milioni di ungheresi hanno aderito alla proposta governativa di dissociarsi dal sistema europeo di ripartizione di quote di profughi e migranti. E non basterà il mancato raggiungimento del quorum a placare la furia populista che soffia da Est. D’altronde sulle stesse posizioni reazionarie e xenofobe di Orban sembrano ritrovarsi anche i governi della Slovacchia, della Repubblica Ceca e della Polonia; ironia della sorte (e forse non della sorte), proprio i quattro membri del vecchio Gruppo di Viségrad, che non più di 25 anni fa si proponeva di promuovere un’integrazione unitaria nell’Unione europea. Oggi sono guidati da chi tradisce la memoria delle sofferenze dei loro popoli, il sogno inseguito per decenni di aderire al mondo libero, e gli sforzi e sacrifici che hanno sostenuto per realizzarlo proprio attraverso l’adesione all’Unione europea.
“L’Europa potrebbe ricadere nelle mani di una massa di pazzi, fanatici, populisti e demagoghi decisi a promuovere le peggiori tradizioni europee”, ammoniva di fronte al Parlamento europeo il politico e intellettuale ceco Vaclav Havel, che del processo di allargamento dell’Unione e di inclusione del blocco orientale fu uno dei grandi protagonisti. Ebbene quell’allargamento e quell’inclusione ci sono state, ma l’Europa si trova ciò nonostante oggi ad affrontare la crisi più grave dalla seconda guerra mondiale, che paventa il rischio non sufficientemente remoto di un suo fallimento. “L’ordine europeo fondato sui migliori valori europei e sulla volontà di difenderli e di trasmetterli”, richiamato da Havel nello stesso discorso del 1994 a Strasburgo, ha sempre più difficoltà a resistere alla tremenda forza distruttrice dell’odio e della paura. Una forza che si radica nel disegno politico e nell’animo di chi si illude di rispondere a problemi globali con anacronistici nazionalismi che non possono avere altro effetto se non quello di destinare l’Europa e il suo ruolo nel mondo a un rapido declino.
Questa forza distruttrice che si diffonde insieme al vento che spira da Est dà luogo a una vera e propria tempesta quando intercetta altri cicloni, come il referendum che ha determinato il Brexit, ad esempio, ma anche come altre recenti consultazioni popolari tra cui quella del Canton Ticino contro i frontalieri italiani. Nel Regno Unito una minoranza si è affermata come vittoriosa solo grazie all’astensionismo dei giovani, alla voglia di punire il premier David Cameron e a un’irrazionale paura per gli immigrati. Nel cantone più meridionale della Svizzera ha trionfato invece una proposta contro i lavoratori italiani che non tiene in alcun conto la realtà dei rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero, che viola la ripartizione delle competenze tra i Cantoni e la Confederazione, che tradisce dunque la Costituzione e, in definitiva, lo stesso patto sociale svizzero.
In comune tutte queste consultazioni hanno il fatto di essere state profondamente condizionate da una volontà di contestazione delle élite, nonché da fattori emozionali e ideologici. Motivazioni riduttive o in alcuni casi del tutto estranee ai quesiti posti dai referendum ne hanno determinato gli esiti, con conseguenze cariche di implicazioni internazionali che hanno inciso, in modo talvolta irrimediabile come nel caso di Brexit, sul destino di milioni di europei.
Tutto ciò invita a riflettere, come faceva Massimo Nava alcuni giorni fa sulle pagine del Corriere della Sera, “sul senso della democrazia diretta, mitizzata a volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa”. Perché talvolta il referendum, di fatto, “riduce o conferma la legittimità del governo che lo ha indetto, ma limita e sottrae la responsabilità di decidere, di scegliere, di guidare una comunità, grazie anche a competenze, conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e titoli che non appartengono necessariamente al comune cittadino”.
Di questa riflessione quello che più preme sottolineare è il richiamo al senso di responsabilità di cui ha l’onere di farsi carico il ceto politico. Nel nostro percorso verso il referendum costituzionale del 4 dicembre ciò si traduce in una necessaria assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori e gli animatori del dibattito, per evitare ogni forma di condizionamento estraneo alla materia del contendere. La più pericolosa è quella che tende a trasformarlo in una ghiotta opportunità per le opposizioni, in un momento in cui esse soffrono di particolare debolezza e incapacità di costruire un progetto politico alternativo, per licenziare il Governo di Matteo Renzi e sparigliare le carte. Un disegno di distruzione, ancora una volta, che sfrutta proprio le debolezze dell’attuale architettura istituzionale, con la sua risicata maggioranza al Senato e la mancanza di una legge elettorale pienamente operativa, a cui la riforma costituzionale si propone di porre rimedio.
In questo scenario un esito del referendum in Italia che ne blocchi l’azione riformista darebbe origine a un altro ciclone da aggiungere alla tempesta perfetta che sta travolgendo l’Europa. E a pagarne il prezzo non sarebbero le élite ma piuttosto coloro che, morsi dalla crisi e smarriti in un mondo che presenta sempre meno certezze e instabilità crescenti, hanno più urgenza di ottenere risposte concrete dalla politica e di essere sostenuti nello sforzo di uscita dal tunnel.
L’obiettivo della riforma costituzionale è di riaffermare la capacità della politica di tornare a offrire risposte ai problemi delle persone. In un mondo sempre più connesso e interdipendente, le crisi che si aprono a migliaia di chilometri dalle nostre case producono degli effetti, più o meno visibili, vedi rispettivamente le migrazioni o il rallentamento della crescita, ma sempre profondamente tangibili, sulle nostre vite. Allo stesso modo, la stabilità del governo e la capacità di cambiamento di un grande Paese come l’Italia sarebbero dal canto loro capaci di generare delle ricadute immediate sia sul piano europeo sia su quello globale.
Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa non è soltanto uno slogan elettorale. Non ha colori politici ed è più di una saggia dichiarazione di intenti. È l’assunzione di responsabilità da parte di una politica che sa prendersi sul serio e conosce l’entità delle sfide che la attendono, dentro e soprattutto fuori dai confini nazionali. Una leadership determinata a corrispondere ai moniti di chi, come Helmut Kohl e Vaclav Havel, di questa responsabilità hanno saputo farsi carico nel passato. E di cui, come cittadini europei, non vogliamo più sentire la mancanza.