Verso una strategia per la Libia

Contributo di Arturo Varvelli (ISPI)

La minaccia dello Stato Islamico

Le risorse umane

La Libia appare oggi sempre più permeabile alla presenza di combattenti legati allo Stato Islamico (ISIS). Fonti affidabili reputano che ci siano complessivamente tra 5000 e 6000 miliziani Isis che operano in Libia (l’ONU a fine novembre dichiarava circa 3000-3500; il Dipartimento Stato USA a gennaio 5000; più recenti fonti di stampa attorno a 6000). Il nucleo principale di questa presenza si attesta nella città di Sirte, sulla costa mediterranea nella Libia centrale. Il contesto dell’ascesa di Isis a Sirte appare per certi versi simile a quello che lo aveva inizialmente favorito in Iraq, ossia l’esclusione di parte della popolazione da un processo di partecipazione politica. Non appare un caso che Sirte sia la città natale di Muammar Gheddafi, e territorio dove è presente la tribù Qaddafa. Dalla sua caduta, la tribù è stata emarginata e ostracizzata dal governo di Tripoli, accusata da altre milizie di connivenza con il passato regime e, in più di un’occasione, duramente colpita per questo motivo. Parte dei giovani della tribù e di seconde linee del regime (figure più defilate rispetto al caso iracheno), a cominciare dalla primavera 2015 hanno quindi sposato la causa dell’Isis, più per motivazioni politiche che ideologiche. Appare poi piuttosto certa e in costante aumento la presenza di stranieri, in particolare iracheni (tra i vertici) e tunisini.
La presenza territoriale

Il sedicente Stato islamico è presente nell’area di Sirte, dove pare controllare circa 180/200 chilometri di costa mediterranea. La debolezza delle forze locali che si oppongono a Isis, rischia di facilitare la conquista, più volte minacciata da parte del gruppo, delle infrastrutture petrolifere del Bacino della Sirte, che tra dicembre 2015 e febbraio 2016 sono state bersaglio di numerosi attacchi. L’eventuale caduta di queste aree, priverebbe lo Stato libico delle uniche entrate di cui dispone: i proventi del petrolio. In seconda battuta garantirebbe rendite consistenti al sedicente Stato Islamico, sebbene, data la posizione geografica, la vendita irregolare del greggio sia molto più complessa da operare rispetto a Siria e Iraq. La decisione di Isis di orientare il fronte operativo a est, garantirebbe al movimento un importante vantaggio strategico evitandogli, almeno per il momento, uno scontro diretto con le milizie di Misurata, tra le meglio attrezzate in Libia. L’Isis appare inoltre disporre di altre aree di controllo in tutto il paese, da Derna, dove aveva inizialmente stabilito una prima enclave alla fine del 2014, fino a Sabratha, dove un campo di addestramento è stato colpito di recente da un raid statunitense. Nelle ultime settimane, a seguito di una escalation degli scontri tra ISIS e le milizie limitrofe, vi è stata un’apparente mobilitazione di alcune forze (comprese quelle del Generale Khalifa Haftar) in vista di un possibile attacco alle zone sotto il controllo di ISIS. Le reali intenzioni sono da chiarire.
Il quadro politico-strategico

Il 17 dicembre scorso, nella cittadina marocchina di Skhirat, sotto l’egida dell’ONU e del nuovo inviato Martin Kobler, i rappresentanti di alcune fazioni hanno firmato un nuovo “Accordo Politico Libico” che prevede un governo di unità nazionale e la condivisione del potere tra il parlamento di Tobruk, espressione delle elezioni del giugno 2014, e quello di Tripoli, re-instaurato nel settembre dello stesso anno. L’accordo è stato ufficialmente adottato con la risoluzione Onu 2259, approvata il 23 dicembre 2015. La risoluzione obbliga gli stati membri a relazionarsi soltanto con il governo di unità nazionale scaturito dal processo di Skhirat mentre, al contempo, stabilisce che la comunità internazionale possa intervenire militarmente contro lo Stato Islamico solamente previa “richiesta del governo libico”. Faiez Serraj ha ricevuto l’incarico di guidare il governo, co-adiuvato da un Consiglio Presidenziale di 9 membri. A metà febbraio, Serraj ha presentato il proprio esecutivo composto da 18 nomi che è ora in attesa di approvazione da parte del parlamento di Tobruk, l’unico riconosciuto a livello internazionale. Il 13 febbraio il Consiglio di presidenza libico ha deciso di non attendere più il voto di fiducia del parlamento libico, e di auto-legittimarsi sulla base di un documento a favore del governo di unità nazionale firmato da 101 deputati del parlamento di Tobruk. Nell’ultimo mese il parlamento di Tobruk non è riuscito a raggiungere il numero legale (e votare l’approvazione del nuovo governo) a causa delle intimidazioni subite dai deputati favorevoli. La comunità internazionale e l’inviato speciale ONU Martin Kobler, hanno espresso pieno sostegno alla mossa del Consiglio di presidenza. Nella fase iniziale il nuovo governo di Serraj (GNA, General National Accord) ha operato dall’estero, in particolare da Tunisi, e non in Libia perché la capitale Tripoli, conquistata nell’estate del 2014, era – ed è ancora oggi in gran parte – sotto il controllo del General National Congress (GNC). Il 30 marzo il governo di Serraj è giunto a Tripoli via mare (l’aeroporto della capitale era stato fatto chiudere in precedenza pare proprio per evitare l’arrivo del governo unitario) e si è insediato nella base navale di Abu Sittah, a 3 km dal centro della città. Il governo/parlamento di Tripoli (GNC) sembra non essere più attivo. Serraj sembra aver consolidato la propria presenza nella capitale grazie al supporto di una parte delle milizie locali, tuttavia, permane il timore che il nuovo governo di unità nazionale sia percepito come una imposizione da parte della comunità internazionale, in particolare occidentale.
Obiettivi politici

Il presupposto fondamentale di ogni intervento armato è che sia chiaro l’obiettivo politico. Conseguentemente l’intervento deve essere valutato, nella sua opportunità e nelle modalità, in base a tale premessa che, sebbene appaia scontata, viene spesso dimenticata. Lo dimostra la scarsa chiarezza, in termini di obiettivi politici, che ha caratterizzato molti dei recenti interventi militari occidentali nei teatri mediorientali. Questa mancata chiarezza conduce a missioni a tempo indeterminato, la cui efficacia politica viene progressivamente erosa. Si pensi ancora al caso dell’Iraq o dell’Afghanistan.
La finalità di un eventuale intervento in Libia, dovrebbe essere quella di contribuire al rafforzamento del governo unitario. Finora sono stati considerati requisiti necessari per una possibile azione militare straniera in Libia l’accordo tra fazioni libiche, la formazione del governo ed una successiva richiesta di intervento da parte dello stesso. Alcune recenti indiscrezioni, tuttavia, lasciano intendere che alcuni attori abbiano valutato l’opportunità di cambiare strategia, considerando l’ipotesi di avviare bombardamenti più massicci e interventi militari diretti contro l’Isis, anche senza una formale richiesta da parte di un legittimo governo libico. Il potenziale di rischio di una scelta in tal senso, come dimostrano numerose esperienze passate, compreso l’intervento NATO in Libia del 2011, è terribilmente alto.
Presupposto per l’individuazione di un eventuale intervento

Il presupposto analitico della scelta politica di un intervento, si fonda sul fatto che il contenimento e/o contrasto militare all’ISIS – condotto principalmente tramite bombardamenti aerei – non sia sufficiente. Questo appare piuttosto evidente in Siria e Iraq. Se, inoltre, si tiene presente come le cause profonde dell’ascesa dell’ISIS, e di altri gruppi islamico radicali in Medio Oriente e Africa, siano da rintracciarsi principalmente nello sfaldarsi delle entità statuali – con le definizioni politologiche di “Stati fragili”, “Stati falliti” o “Stati in via di fallimento” – emerge chiaramente come soltanto attraverso il contributo con politiche attive alla ricostruzione di questi Stati, e in questo caso dello Stato libico, sia possibile arginare la minaccia di contesto anarchico favorevole all’espansione dello Stato Islamico.
Quando nel corso degli ultimi cinque anni si è più volte ripetuto che “ci si deve occupare della Libia”, certamente si immaginava qualcosa di più di un nuovo intervento armato.
Si intendeva, in primis, accompagnare il tentativo libico di sviluppare un sistema politico partecipativo, per il quale nel 2012 andarono a votare più del 60% degli aventi diritto, pur non avendo una chiara idea di cosa comportasse un sistema di voto democratico, dopo oltre 40 anni di regime di Gheddafi. Si intendeva la necessità di favorire il processo di “nation bulding” e di “state building” in un paese dall’identità nazionale ancora fragile, che si era retto negli ultimi decenni unicamente sulla figura di un leader totalitario che aveva smantellato sistematicamente ogni istituzione in gradi di agire da contrappeso alla sua personale gestione del potere. Un potere che gli derivava principalmente dai proventi del petrolio. Un obiettivo politico chiaro insomma, seppur estremamente complesso e articolato.
Eppure, nel calderone delle semplificazioni giornalistiche di questi giorni, è spesso implicita una corrispondenza pericolosa: non dare immediatamente avvio ad una spedizione militare, vorrebbe dire non avere un ruolo. Ergo, vorrebbe dire non occuparsi della Libia. In realtà occuparsi della Libia significa affrontare le difficoltà del Paese. E non sembra che con i bombardamenti aerei si possa porre rimedio alla fragilità delle istituzioni, ricomporre il quadro politico, e ridare fiducia ad una popolazione che nel 2014 ha fatto registrare un’affluenza al voto per le elezioni legislativa soltanto del 18%, dimostrando come in pochi mesi, gran parte di coloro che avevano creduto in un processo di partecipazione democratica avevano già perso ogni fiducia. Occorre dunque continuare il percorso di ricostruzione del Paese. Serve un nuovo “patto civile e sociale” che faccia da argine alla frammentazione, serve affrontare i nodi politici interni e internazionali.
Nodi politici irrisolti e rischi di un intervento senza accordo politico tra le fazioni libiche

Pertanto, la stabilizzazione di un governo unitario dovrebbe essere l’obiettivo prioritario e, come tale, va perseguito con tutti gli strumenti possibili dalla comunità internazionale e dall’Italia. I nodi che finora hanno impedito il successo del negoziato sono ancora da sciogliere, in particolare il ruolo che avrà il generale Haftar nel futuro della Libia e la perdurante ostilità all’accordo di buona parte delle milizie e delle forze politiche della Tripolitania, che fanno riferimento al presidente islamista del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahmein. È poi logico pensare che un intervento armato in un paese che faticosamente cerca di ricomporre il quadro politico possa definitivamente compromettere le residue speranze di pacificazione. È molto facile che un intervento esterno faciliti il compattamento dei gruppi islamisti attorno alla forza preponderante, il sedicente Stato islamico, offrendo ad esso una potente arma propagandistica ed aumentandone il potenziale bacino di reclutamento. Il panorama politico libico sembra ancora vittima degli interessi di parte contro gli interessi generali della nazione. Nell’ultimo mese il parlamento di Tobruk non è riuscito a raggiungere il numero legale (e votare l’approvazione del nuovo governo) a causa delle forti intimidazioni subite dai deputati favorevoli. Non è d’altra parte auspicabile per gli interessi italiani ed europei, che si creino le condizioni di operatività del nuovo governo di Serraj senza che vi sia una piena volontà politica delle amministrazioni Tobruk e Tripoli di aderirvi.
Vi è da considerare che agli occhi dei libici un nuovo intervento esterno, anche nel caso che fosse un governo libico unitario a richiederlo, potrebbe svuotare definitivamente quest’ultimo di qualsiasi credibilità, facendolo apparire palesemente irrilevante o peggio un “fantoccio” dell’Occidente, causandone rapidamente il boicottaggio da parte di numerosi paesi arabi. È bene ricordare che l’obiettivo finale dovrebbe essere una reale stabilità della Libia, e questo può essere conseguito soltanto attraverso politiche di stabilizzazione di lungo periodo. Per questo è necessario guardare non solo al quadro libico, ma a quello internazionale. Per esempio, è auspicabile rassicurare l’Egitto e trovare un accordo, affinché il governo si liberi della carta Haftar, che rappresenta un impedimento troppo rilevante al processo di riconciliazione nazionale. Nonostante lo scorrere del tempo favorisca l’Isis, sono necessarie pazienza ed una visione politica lucida e di lungo periodo, non aggressività militare.
Politiche di stabilizzazione

In sintesi, la comunità internazionale, l’Europa e i principali attori coinvolti nella crisi libica (Italia, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania) dovrebbero:

  • De-enfatizzare la questione della “legittimità” nelle dichiarazioni pubbliche e porre invece enfasi sulla partecipazione ai negoziati condotti dalle Nazioni Unite e sul comportamento degli attori sul terreno, in particolare l’aderenza al cessate il fuoco. Al contempo, è necessaria una decisa azione diplomatica per rafforzare il nuovo governo di Serraj e permettergli di prendere pieno possesso della capitale e dell’amministrazione reale del paese, attraverso consultazioni con le forze politiche libiche e le milizie, in particolare della Tripolitania. Continuare un processo di consultazione tra gli attori chiave del paese: partiti politici, rappresentanti locali delle municipalità, società civile, rappresentanti delle minoranze (tebu, tuareg, berberi) e delle tribù per quanto possibile (sulla traccia di quanto già iniziato a Skhirat). Il processo di legittimazione del nuovo governo deve avvenire in un costante processo di costruzione di consenso vero tra forze politiche e milizie.
  • Essere più espliciti nel confronto con gli attori regionali che contribuiscono ad alimentare ancora il conflitto fornendo armi o altro aiuto militare o politico – in particolare Ciad, Egitto, Qatar, Sudan, Turchia ed Emirati Arabi Uniti (EAU) – e incoraggiarli a premere i loro alleati libici a negoziare in buona fede alla ricerca di una soluzione politica. Gli attori regionali che tentano di sostenere i negoziati, in particolare Algeria e Tunisia, dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti.
  • Elaborare strategie politiche e militari per combattere il terrorismo, in coordinamento con le forze politiche libiche di ogni area, astenendosi al contempo dal sostenere un intervento militare esterno per combattere l’ISIS, nonché facilitare in tal senso un coordinamento sul terreno delle forze vicine a Serraj e di quelle facenti capo a Haftar, anche come primo passo di appeasement politico.
  • Mantenere per ora l’embargo sulle armi delle Nazioni Unite, respingendo espressamente la sua revoca totale o parziale e rafforzarne invece l’attuazione, per quanto possibile.
  • Ampliare le sanzioni ONU e UE ad personam contro coloro che si oppongono al processo politico e al nuovo governo di unità nazionale sulla base di criteri trasparenti e oggettivi, in particolare contro chi si rende colpevole di incitamento o partecipazione a violenze.
  • Sostenere, anche militarmente laddove necessario, l’incolumità fisica dei nuovi rappresentanti politici, del governo e delle istituzioni economico-finanziarie, che devono essere messi in condizione di prendere decisioni senza le pressioni e le intimidazioni delle milizie.
  • Proteggere la neutralità e l’indipendenza delle istituzioni finanziarie e petrolifere: la Central Bank of Libya (CBL), la Società National Oil (NOC) e la Libyan Investment Authority (LIA); nonché garantire che queste gestiscano la ricchezza nazionale in modo da far fronte alle esigenze fondamentali dei cittadini e contribuire ad una soluzione politica negoziata.
  • Avviare programmi di disarmo, smobilitazione e reintegrazione per i miliziani che siano legati ad incentivi economici da parte del nuovo governo. Avviare reali programmi di integrazione di alcune milizie all’interno delle forze di polizia e dell’esercito. Terminare il pagamento indiscriminato ai miliziani subordinando tali pagamenti all’adesione dei programmi del nuovo governo.
  • Avviare un reale processo di “State-building / Institution building” con l’ausilio dell’ONU e della UE.
  • L’Italia si è dichiarata pronta a prendere il comando delle operazioni, ma è necessario che il compito di affrontare sul campo l’ISIS venga demandato alle forze libiche sostenute, addestrate e ‘consigliate’ da quelle internazionali sulla base del principio SFA (Security Forces Assistance): train, assist e advise in linea con quanto già avviene in altri teatri di guerra, dall’Afghanistan al Kurdistan.
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