Nel 2022 possiamo davvero parlare di veri e finti profughi?

Il conflitto in Ucraina ha costretto milioni di persone a fuggire dal proprio Paese d’origine per cercare protezione negli Stati limitrofi. Di fronte alla crisi umanitaria in corso e vicina ai suoi confini, l’Unione Europea ha adottato numerosi strumenti che sono volti, in primo luogo, a garantire la sicurezza degli esuli. In particolare, il 3 marzo il Consiglio europeo ha dato attuazione per la prima volta alla Direttiva 2001/ 55/CE, che ha due scopi essenziali. Il primo è evitare che un enorme numero di migranti sia sottoposto alla procedura ordinaria di esame della richiesta di protezione internazionale, creando una paralisi delle procedure amministrative negli Stati dell’Unione e, parallelamente, fare in modo che i profughi possano subito “godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione che conferiscano un livello di protezione adeguato, comprendente titoli di soggiorno, la possibilità esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo e di essere adeguatamente alloggiati, la necessaria assistenza sociale, medica o di altro tipo e contributi al sostentamento”. Il secondo obiettivo è garantire che gli Stati accolgano “con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea [e che indichino] la loro capacità d’accoglienza in termini numerici o generali”.

Tale Direttiva era stata adottata all’indomani del conflitto nell’ex Jugoslavia, quando per la prima volta dopo la seconda Guerra mondiale, l’Europa si era trovata di fronte a un notevole numero di sfollati ed era stata concepita specificamente per promuovere un equilibrio degli sforzi volti a gestire congiuntamente gli spostamenti massicci di sfollati all’interno dell’Europa. Un’applicazione così tardiva della Direttiva deriva da motivazioni esclusivamente politiche: non è certamente dipesa dall’assenza in Europa di un “imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi”, si pensi infatti ai siriani o, ai più recenti esuli afghani, nonostante si possa obbiettare che l’afflusso massiccio di questi ultimi verso l’Europa non si sia completamente verificato (in ragione delle politiche di esternalizzazione dell’Europa che hanno bloccato e confinato un numero elevato di rifugiati in Paesi terzi pagando un prezzo altissimo sia in termini economici che politici). Il gruppo di Visegrád  e l’Austria, in sede di Consiglio, hanno addirittura contestato l’estensione della protezione temporanea prevista dalla Direttiva 2001/55 a cittadini di Paesi terzi residenti in Ucraina, rendendo incerta fino all’ultimo la procedura di attivazione della stessa, generando peraltro il paradossale effetto per cui tutti i migranti si sarebbero concentrati nei primi Paesi di ingresso – ossia gli stessi del blocco di Visegrad.

Considerata l’entità dell’emergenza che stiamo vivendo e di quelle che abbiamo vissuto e la portata dei conseguenti flussi migratori, l’attivazione della protezione temporanea nei confronti dei migranti provenienti dall’Ucraina e l’avvio quanto prima di un piano europeo di accoglienza che comprenda anche quote di ripartizione tra i vari Stati è una scelta non solo adeguata ma assolutamente necessaria.

Inoltre, alcune narrazioni mediatiche della crisi migratoria ucraina hanno messo in luce la necessità di uno sforzo culturale anche da parte della società civile. Il presentatore di Al Jazeera English Peter Dobbie durante una trasmissione domenicale si è così espresso: «Guardandoli, nel modo in cui sono vestiti, queste sono persone abbienti della classe media. Questi non sono rifugiati che cercano di allontanarsi dal Medio Oriente […] o dal Nord Africa. Sembrano una qualsiasi famiglia europea con cui vivresti accanto».

Ai fini dell’integrazione all’interno della società occorre il migrante sia identificato anche dall’opinione pubblica come tale senza ricorrere all’utilizzo di categorie basate su affinità culturali e di costume. Questo consentirebbe infatti l’avvio di un processo di integrazione che non cede all’ondata nazionalista e xenofoba che in Europa ha cercato, spesso con successo, di ostacolare l’implementazione delle politiche migratorie.

Fatte queste considerazioni, si riportano di seguito alcuni suggerimenti di policy volti a migliorare la gestione di tali flussi:

  1. Considerato l’approccio di chiusura adottato da alcuni Stati e sopra descritto, occorre domandarsi se convenga continuare a fare affidamento sulla solidarietà degli altri paesi per gestire i flussi migratori che arrivano sulle coste italiane. È certamente ragionevole chiedere che la Commissione Europea assuma compiti di redistribuzione dei costi (dai Paesi più esposti a quelli meno esposti), oppure che i Paesi meno colpiti dallo shock migratorio si impegnino finanziariamente e organizzativamente per costruire centri di raccolta dei migranti là dove essi partono per andare in Italia. Allo stesso modo, è ragionevole chiedere di rivedere gli accordi di Dublino tenendo in considerazione anche l’atteggiamento di chiusura dei Paesi del blocco di Visegrad.  Tuttavia, per quanto tali misure siano essenziali, esse non risolvono il reale problema che è costituito dalla persistenza della sovranità territoriale degli Stati in tema migratorio. Ecco perché la richiesta di un maggior coinvolgimento dell’Europa nella gestione dei flussi migratori andrebbe accompagnata da una strategia per ridefinire le sovranità territoriali e finalizzata a istituire un governo comune della politica migratoria che sia indipendente e separato dai singoli Stati. Seguendo questa prospettiva dunque, occorre trasformare FRONTEX in un’agenzia che agisca in autonomia rispetto alle volontà dei singoli governi (diversamente da come accade adesso poiché interviene su richiesta da questi ultimi), così garantendo lo spazio europeo della libera circolazione. Occorre assegnare al governo comune della politica migratoria un bilancio indipendente, derivato da una capacità fiscale autonoma e gestito da un commissario responsabile verso il Parlamento europeo e il Consiglio. Si tratta infine di sostituire gli Accordi di Dublino con una politica europea dell’asilo politico gestita da autorità politiche sovranazionali.
  2. È nell’interesse dei paesi situati ai confini dell’Unione e quindi anche dell’Italia insistere sulle Migration Partnership, gli accordi tra Europa e paesi di origine e transito dei migranti in Africa subsahariana. L’aumento degli aiuti allo sviluppo verso i paesi africani è un obiettivo importante a prescindere dal fenomeno migratorio e l’azione in tal senso può portare a risultati concreti nel lungo periodo e solo se specificamente finalizzata a creare occupazione nei paesi d’origine e di transito. Se così non fosse infatti, non si risolverebbe la radice del problema, il sottosviluppo. Si rischia invece di destabilizzare contesti già fragili senza creare sufficienti opportunità di occupazione regolare alimentando così i flussi migratori verso i Paesi europei.
  3. Integrare. Questo processo deve avvenire nella consapevolezza che il problema non riguarda esclusivamente i beneficiari di protezione internazionale ma anche i migranti irregolari sul territorio italiano che quasi sicuramente il nostro Paese non sarà in grado di rimpatriare. Chi è arrivato in Italia per vie irregolari fatica a trovare un lavoro rispetto a un migrante regolare: in Europa il tasso di occupazione di un migrante regolare nei primi 12 mesi dal suo ingresso è dell’80%, mentre quello di un migrante irregolare è del 30%. Questo gap tende a ridursi nel tempo ma persino a dieci anni dall’arrivo, i migranti giunti per vie irregolari hanno un tasso di occupazione del 65%. Il processo di integrazione mira proprio a ridurre il più possibile questo gap, in modo da far sì che i migranti irregolari si trasformino da problema a risorsa anche per l’economia nazionale. Ciò ridurrebbe infatti il rischio di povertà e marginalizzazione e porterebbe a diminuire i problemi sociali connessi (criminalità o, persino, radicalizzazione). Inoltre, in prospettiva, esempi virtuosi di integrazione aumenterebbero il prestigio dell’Italia nei confronti dei propri vicini europei, che fino a oggi ci hanno accusato di essere in ritardo nello sviluppo di una strategia coerente e di avervi investito risorse troppo limitate. Gestire i processi migratori non è mai semplice, soprattutto in situazioni così mutevoli e con flussi irregolari ben più elevati rispetto al recente passato. La sfida italiana è quindi quella di conciliare le legittime esigenze di sicurezza dei cittadini italiani con la realtà di un fenomeno di portata epocale e che difficilmente potrà essere arrestato nel prossimo futuro, considerando soprattutto gli ultimi avvenimenti.
  4. L’auspicio per il futuro è che le politiche migratorie così come la sensibilità collettiva alla questione migratoria siano le stesse per tutte le categorie di migranti. Questo nella speranza che non si faccia più distinzione tra “veri” e “finti” profughi semplicemente perché provenienti da territori lontani dai confini europei e per questo considerati indesiderabili parlandone sempre al plurale e denudandoli da qualsiasi soggettività, come fossero oggetti di dibattito politico, fattori di disoccupazione, insicurezza e nient’altro. Ciò con l’obiettivo di governare il fenomeno, anziché esserne governati.
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