Di che cosa ha paura il Partito Socialista spagnolo?

Susana Díaz, 42 anni, Presidente dell’Andalusia, la Regione più popolosa della Spagna, governata da sempre dai socialisti e ove si concentra il 25% della militanza e uno su quattro dei voti ricevuti dal PSOE nelle elezioni dello scorso 26 giugno. E’ lei la candidata dell’establishment alla Segreteria del Partito Socialista spagnolo nelle primarie del prossimo 21 maggio, aperte ai circa 190.000 militanti.

Díaz ha annunciato formalmente la sua candidatura domenica 26 marzo, circondata dagli ex Presidenti González e Zapatero e da quasi tutti i dirigenti che hanno fatto la storia del Partito Socialista spagnolo, talvolta anche scontrandosi tra di loro. Si è trattato di una dimostrazione di forza ed unità, accompagnata da un forte richiamo – nel discorso pronunciato dalla candidata – alla storia del partito e all’orgoglio di essere “100% PSOE”, secondo il lemma scelto. Ma si è trattato, soprattutto, di un messaggio diretto alla militanza: la sconfitta di Susanna Díaz sarebbe la sconfitta di tutta la “famiglia” socialista. Ovvero: se vince Pedro Sánchez, perde il Partito.

L’appoggio quasi unanime dell’apparato organico del PSOE (oltre il 70%, secondo i media spagnoli) a Susana Díaz si può anche leggere come un segnale di paura: mai come in questo frangente storico – caratterizzato dalla crisi dei partiti tradizionali e, in particolare, della socialdemocrazia europea, dalla fine del bipartitismo in Spagna, dall’auge dei populismi e dal ritorno a ideali nazionalisti – il Partito Socialista spagnolo vede all’orizzonte il rischio di cadere nell’irrilevanza. E per questo serra le fila.

Per la dirigenza del PSOE il candidato Pedro Sánchez rappresenta un pericolo per diversi motivi. In primo luogo per il rischio di acuire la frattura con la militanza. Sánchez ha infatti dalla sua parte la rabbia di coloro che non hanno compreso il “golpe” con cui, sei mesi fa, la nomenclatura socialista si sbarazzò di lui – Segretario Generale legittimamente eletto in primarie – per facilitare, con il voto di astensione, un Governo Rajoy-bis. Una decisione che la Commissione provvisoria (vicina a Susana Díaz) che da allora sta gestendo il partito giustifica come scelta inevitabile e responsabile, per superare il blocco istituzionale e dare un Governo al Paese.

In secondo luogo Sánchez è pericoloso perché vuole la sua rivincita e non ha nulla da perdere. La sua strategia è quella di erigersi a rappresentante della base versus l’apparato e di presentarsi come l’unico in grado di ricollocare il PSOE veramente a sinistra per fermare l’emorragia di voti verso Podemos (peraltro prodottasi mentre lui era alla guida del partito). Pericoloso non tanto per i segnali di intesa che lancia a Pablo Iglesias, suggerendo la possibilità di un’alleanza delle sinistre contro Rajoy, ma soprattutto in quanto considerato promotore di una “podemizzazione” del PSOE che la dirigenza socialista considera nefasta: tra la copia e l’originale, il votante sceglierebbe sempre quest’ultima.

In tale scenario di contrapposizione tra “sanchisti” e “susanisti” non sembra prendere piede l’ipotesi della cosiddetta “terza via” incarnata dall’ex Presidente del Congresso Patxi Lopez. Egli si propone quale soluzione conciliatoria e di consenso, laddove una vittoria di Sánchez comporterebbe probabilmente una “purga” interna senza precedenti e una vittoria della Díaz potrebbe significare una fuga di militanti. Lopez non appare tuttavia in grado di “scaldare gli animi” e sono in molti a credere che, ad un certo punto, finirà per ritirarsi ed appoggiare Susana Díaz.

Se certamente è una buona notizia che i militanti socialisti spagnoli possano scegliere tra più candidati, preoccupa l’elevato grado di polarizzazione e personalizzazione della campagna, che rischia peraltro di far passare in secondo piano la “battaglia delle idee”. Dopotutto di qui a due mesi il PSOE non sceglie solo una nuova leadership, ma anche un nuovo “progetto di partito”, che dovrà essere frutto di una riflessione politica ed ideologica e che possa essere capace di recuperare soprattutto il voto giovane ed urbano. Dal 2008, infatti, il Partito Socialista spagnolo ha perso 6 milioni di voti ed è diventato sempre più espressione di un voto rurale e concentrato nelle fasce d’età più alte: una discesa che ha raggiunto il suo minimo storico nel giugno 2016 (22,6% e 85 seggi), ma che è iniziata ben prima dell’era Sánchez e prima dell’arrivo di Podemos, il cui successo (appena 400.000 voti in meno del PSOE) va letto più come una conseguenza che come una causa della crisi dei partiti tradizionali.

Il nuovo progetto di PSOE dovrà vertere attorno a tre assi: 1) le politiche; 2) l’organizzazione di partito; 3) la strategia di alleanze. Il primo punto significa riuscire a dare risposte alle questioni di interesse per i cittadini, quali la crescente diseguaglianza e il precariato nel lavoro, il modello pensionistico, la riforma dell’educazione o il ruolo dell’economia digitale. Sul secondo aspetto Sánchez punta a sedurre la militanza con un progetto di partito “aperto”, con un accresciuto ruolo partecipativo degli iscritti. Ma è soprattutto sulla strategia di alleanze che – nel nuovo scenario pluripartitico spagnolo – si plasmerà il futuro del PSOE. Non solo con riferimento a Podemos, ma anche per quanto riguarda la relazione con il Partito Popolare.

Non vi è dubbio che quest’ultimo parteggi per Susana Díaz, che considera più istituzionale e dialogante. Del resto la leader andalusa, pur cosciente che un eccessivo avvicinamento al PP potrebbe avere in futuro un costo elettorale elevato, sa bene di non potersi permettere di tornare alle urne a breve. E sa anche che, nel dialogo con il Governo, deve tener in conto le esigenze dei Presidenti di Regione socialisti (che la appoggiano). Quanto ad ipotetiche alleanze a sinistra, la Díaz ha dichiarato di volere un partito “capace di chiudere accordi con altre forze politiche ma senza imitarle”, con allusione alla strategia sanchista di avvicinamento a Podemos. La lideresa sembra piuttosto credere che un consolidamento del partito nel suo spazio tradizionale di centro-sinistra, con un forte ancoraggio ai valori tradizionali del socialismo, possa risultare vincitore rispetto a un Podemos che, intrappolato in uno “stato di agitazione permanente”, non sembra capace di maturare per convertirsi in una forza in grado di promuovere il cambiamento a partire dalle istituzioni.

Resta da vedere se una figura tanto erede della “vecchia scuola” socialista sia la più idonea per recuperare il voto giovane e a tener testa a Podemos nelle grandi città. Di certo per il momento Susana Díaz è riuscita a riunificare attorno a sé il partito, ma con il rischio che questa esibizione di forza dell’apparato finisca per rivelarsi un boomerang e produrre sulla militanza un effetto contrario di rigetto. I sondaggi interni la danno in vantaggio, anche se Sánchez sta dimostrando una buona capacità di mobilitazione, a giudicare dal numero di militanti che affollano i suoi interventi pubblici. Se si tratti solo di una minoranza chiassosa lo si vedrà il 21 maggio.

 

E.H.

Total
0
Shares
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Previous Post

Il Kosovo e il rischio di un jihadismo balcanico per l’Italia e l’Europa

Next Post

Perché non bisogna eliminare le sanzioni contro la Russia

Related Posts