La cooperazione italiana alla prova del Piano Mattei

Nonostante i tentativi di questi anni, l’Italia non ha purtroppo una esperienza di cooperazione internazionale all’altezza di un paese del G7.

Nel 2014 il governo Renzi introdusse una riforma organica della cooperazione istituendo una agenzia dedicata (AICS) dentro il nuovo Ministeri degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e affidando a Cassa Depositi e Prestiti il ruolo di istituzione finanziaria per lo sviluppo. I risultati concreti sono purtroppo rimasti al di sotto delle aspettative. Le risorse effettivamente distribuite annualmente dall’Italia nel 2023 arrivavano 5.6 miliardi di dollari contro i 16 della Francia e i 17 del Regno Unito e 36 della Germania.[1] Le risorse messe a disposizione dall’Italia sono leggermente cresciute negli anni (erano in media 4.8 miliardi l’anno nel 2014-18) ma sostanzialmente in dieci anni non c’è stato un cambio di passo.  Peraltro, nel 2022 oltre un quarto di queste risorse sono spese in Italia per coprire costi legati ai richiedenti asilo. Il bilancio dell’Italia non ha ampi spazi di manovra, ma anche qualitativamente i passi avanti sono stati pochi. Gran parte degli interventi italiani si risolvono in prestiti sovrani concessionari pluridecennali o in trasferimenti concessionali ad altre banche pubbliche di sviluppo a cui è delegata l’effettiva messa a terra dei progetti. La nostra capacità automa di portare valore aggiunto rimane limitata.

Il Piano Mattei del governo ha suscitato interesse ma non affronta ancora le due questioni di fondo che hanno rese inefficace la nostra azione negli ultimi anni: una governance estremamente complessa e l’assenza di prioritizzazione nell’uso delle risorse.

Primo, la prioritizzazione è indispensabile per un paese come l’Italia, dove il costo del debito è alto e gli spazi di spesa limitati. I paesi in via di sviluppo raccolgono investimenti per duemila miliardi di dollari l’anno: di questi, meno di duecento vengono dai governi donatori e l’Italia è tra i donatori più piccoli. La domanda è quindi come le limitate risorse italiane possano dare un contributo allo sviluppo internazionale, e quindi anche al nostro ruolo nel mondo. La priorità dell’Italia potrebbe essere quella di mobilizzare capitali privati verso la transizione energetica in paesi in via di sviluppo, ed in particolare in Africa.  L’obiettivo e’ “creare mercati”, dimostrando che è possibile fare impatto sociale e ambientale portando capitali privati là dove non andrebbero. Più che nuovi strumenti, serve quindi un nuovo modo di pensare per cui l’obiettivo delle risorse pubbliche è rendere commercialmente, socialmente e ambientalmente sostenibili l’elettrificazione, la produzione energetica diffusa, lo sviluppo di nuove tecnologie come l’idrogeno verde, il riciclo dei rifiuti e delle materie prime. Non si tratta di ridurre il ruolo dello Stato e questi progetti funzionano solo se sono allineati ad un reale sforzo di riforme e investimenti del governo locale. Al contrario, significa far funzionare il mercato e creare una economia formalizzata così da liberare risorse pubbliche che i governi possono poi investire in servizi e welfare.

Secondo, il sistema di governance della cooperazione è volutamente farraginoso frutto di una cultura politica che predilige il controllo diretto all’assunzione di responsabilità per i risultati effettivamente conseguiti (accountability). Negli anni, i governi hanno accavallato vari strumenti finanziari e per ciascuno di questi creato, per legge, diversi comitati ministeriali (e talvolta anche politici) che decidono quali operazioni perseguire e con che tempi. Abbiamo creato una grande confusione tra strumenti verso enti pubblici e no-profit, strumenti di finanza per lo sviluppo, e strumenti di supporto all’internazionalizzazione delle imprese italiane. Si tratta di obiettivi diversi, con razionali di intervento che devono essere nettamente separati. Se tutto si puo’ utilizzare per tutto, e tutte le decisioni richiedono una approvazione ministeriale, si finisce per decidere nulla. L’Italia deve creare una istituzione di finanzia per lo sviluppo dedicata, con governance e personalità giuridica propria, che non si occupi del supporto alle imprese italiane e degli interventi a dono verso gli Stati, gestiti invece dai ministeri e da AICS. Questa nuova istituzione dovrebbe avere capitalizzazione e capacità decisionale autonoma dai ministeri, come negli altri paesi europei, e potrebbe essere strutturata come una sussidiaria di CDP. Essa dovrebbe operare all’interno di priorità pluriennali definite dal governo, ma prendendo le singole decisioni di investimento in reale autonomia. Si tratterebbe di una rivoluzione nel panorama pubblico italiano, dove tutto è politico ma nessuno è mai responsabile per i risultati.

Con il Piano Mattei il governo insiste sull’importanza di creare relazioni paritarie con l’Africa, sulla necessità di fare sistema tra ministeri e aziende italiane, e sulla creazione di partnership locali trainate dai governi africani e dalle banche pubbliche di investimento. Oltre ad accentrare la governance a Palazzo Chigi, il governo ha però presentato poche idee sulle strategie di intervento, le risorse, i progetti e l’effettivo valore aggiunto dell’Italia. Il PD potrebbe cogliere questa opportunità per aprire un suo dialogo con i partner africani, le istituzioni, le imprese e la società civile, e sfidare la maggioranza su questo terreno con proposte concrete ed efficaci.


[1] Dati OCSE-DAC (Gross ODA).

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