Di Cono Giardullo
Sono trascorsi più di tre anni da quando, il 25 maggio 2014, Petro Poroshenko è stato eletto Presidente dell’Ucraina. A quel tempo la Crimea era già stata annessa unilateralmente dalla Russia ed alcune città nell’est del paese erano state occupate dai separatisti filo-russi.
A oltre metà del suo mandato quinquennale, ed in vista delle elezioni presidenziali del 2019, Poroshenko e la sua amministrazione hanno inanellato una sequenza di successi geopolitici che saranno utili a difendere la sua probabile ricandidatura e cercare di recuperare nei sondaggi, che al momento lo vedono solo in terza posizione.
I recenti successi dell’amministrazione presidenziale e del governo ucraino sono principalmente tre: l’organizzazione del festival Eurovision, l’entrata in vigore dell’accordo di associazione UE-Ucraina e la liberalizzazione dei visti per l’accesso ai paesi Schengen e, infine, l’incontro della Commissione Nato-Ucraina a Kiev.
L’Ucraina si è guadagnata il diritto ad organizzare l’ultima edizione dell’Eurovision grazie alla vittoria, lo scorso anno a Stoccolma, della canzone di Jamala, una tatara di Crimea, che con la sua “1944” aveva raccontato la deportazione staliniana dei suoi antenati verso l’Asia Centrale. Quest’anno il festival della canzone europea, organizzato a Kiev, ha generato nella popolazione ucraina grande entusiasmo e orgoglio. Dopo la vittoria geopolitico-culturale dello scorso anno (è acclamato vincitore chi riesce a ottenere più voti in base a un sistema misto di televoto e di sostegno delle altre delegazioni nazionali), gli ucraini non hanno abbassato la guardia.
Lo scontro con Mosca si è rinnovato. Una cantante disabile, Yulia Samoilova, che si era esibita in Crimea dopo l’annessione della penisola, era stata infatti designata dalla Russia come sua rappresentante. Kiev si è rifiutata di concedere l’ingresso della Samoilova sul territorio ucraino, senza indietreggiare di fronte alle prospettive di future squalifiche da parte della European Broadcasting Union. La Russia ha deciso di non nominare un artista alternativo e ha bloccato la trasmissione dell’Eurovision sui canali nazionali. Lo scorso maggio, il Festival si è svolto senza intoppi, con gran successo di pubblico, senza che nessuno davvero sentisse la mancanza del vicino orientale.
L’apertura delle frontiere Schengen secondo il regime di visa-free è giunto dopo oltre 15 anni di negoziazioni, l’11 giugno 2017. Migliaia di ucraini sono scesi in piazza per festeggiare. Da oltre un mese tutti gli ucraini con un passaporto biometrico (circa tre dei 46 milioni di cittadini ucraini), possono viaggiare nell’area Schengen per un periodo fino a 90 giorni senza visto per ragioni di lavoro, turistiche o familiari.
Al di là dell’effetto pratico, l’importanza di tale accordo è politica e ideologica, perché avvicina l’Ucraina alla famiglia europea, ancor più se si considera che Kiev si è guadagnata questo privilegio sul campo, implementando oltre 140 riforme imposte da Bruxelles attraverso il Visa Liberalization Action Plan. La misura, particolarmente benvenuta nelle regioni occidentali dell’ex repubblica sovietica, rafforzerà gli effetti di socializzazione, soprattutto tra le generazioni più giovani, che misurano le loro condizioni di vita comparandole a quelle dei vicini paesi dell’UE. E se le riforme di Kiev hanno permesso l’ottenimento del regime di liberalizzazione dei visti, a maggior ragione le stesse son diventate sinonimo di avvicinamento all’UE, quando l’11 luglio di quest’anno, a ridosso del summit UE-Ucraina, il Consiglio ha adottato una decisione relativa alla conclusione dell’accordo di associazione tra l’UE e l’Ucraina.
L’accordo di associazione 2.0 traduce la famosa premessa dell’integrazione senza membership di cui si discute nella politica di allargamento UE da oltre un decennio. L’accordo mira a rafforzare le relazioni politico-economiche tra il blocco dei 28 e Kiev, con una graduale integrazione del mercato ucraino all’interno di quello europeo. Nozione, questa, che risulta assente dagli accordi di associazione euro-mediterranei e dagli accordi di associazione e stabilizzazione coi paesi dei Balcani. La convergenza è discussa e attuata anche su questioni di politica estera e di sicurezza, così come nelle misure commerciali attraverso il capitolo sul “Deep and Comprehensive Free Trade Agreement”. Le esportazioni ucraine verso il blocco europeo sono aumentate dal 25% al 36% del totale tra il 2012 e il 2016, e questo anche a seguito della rottura delle relazioni economiche con la Russia.
Infine, il 10 luglio scorso, la Commissione Nato-Ucraina del Consiglio Atlantico si è riunita a Kiev per celebrare il ventesimo anniversario della “Distinctive Partnership”: l’accordo politico alla base delle relazioni tra Kiev e i 29 Membri dell’Alleanza. Sin dall’inizio del conflitto nell’est del paese, la Nato ha creato un pacchetto di assistenza tecnica per Kiev, al fine di rafforzare la riforma nel settore della sicurezza e delle iniziative bilaterali (Trust Funds) che mirano inter alia a sostenere la difesa dagli attacchi cibernetici e a rafforzare la cooperazione scientifico-militare.
Nel 2016 la Nato ha inaugurato una rappresentanza ufficiale a Kiev a sostegno dei settori di riforma strategica del paese. Durante l’incontro di quest’anno il Segretario Generale Nato Stoltenberg ha dichiarato che ciascun paese ha “diritto di scegliere gli accordi che preferisce per garantire la propria sicurezza”. Il presidente Poroshenko ha aggiunto che firmerà senza tentennamenti la legge votata dal Parlamento in cui si definisce l’ingresso nella Nato uno degli obiettivi strategici della politica estera di Kiev, sottolineando però che richiederà formalmente l’adesione nell’Alleanza solo nel 2020, sperando in un forte mandato democratico ottenuto alle elezioni dell’anno precedente.
L’anno in corso, in ogni caso, non ha riservato all’Ucraina solo successi sul piano internazionale. L’amministrazione è in effetti stata indebolita dalle diverse priorità emerse nel Summit Unione Europea-Ucraina, dall’attacco cibernetico alle istituzioni e alle aziende ucraine; è stata criticata all’estero, infine, per le crescenti limitazioni della libertà di espressione.
Il Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha sottolineato che l’essenza dell’Accordo di Associazione UE-Ucraina si ritrova in una delle righe stesse del documento: “L’UE riconosce le aspirazioni europee dell’Ucraina e si felicita della sua scelta europea”. Ma proprio intorno a queste parole si è discusso a lungo durante la stesura del comunicato finale del summit che la presidenza di turno estone ha deciso di non pubblicare. Galeotta è stata l’opposizione olandese a tale formulazione. L’Aja chiedeva di precisare, come già deciso dal Consiglio Europeo lo scorso dicembre, che la firma dell’Accordo non garantisse la candidatura di Kiev come Stato membro dell’UE. Seppur il comunicato finale sia solo simbolico, è prassi consolidata per i summit di rilievo, quale quello di Kiev.
Altrettanto problematico è parso il briefing pubblicato dall’UE a ridosso del summit con le priorità da discutere. Se il primo punto è quello dell’importanza di “perseguire un ambizioso processo di riforme, specialmente nella lotta alla corruzione” – priorità per l’UE – per l’Ucraina l’attenzione sembrava essere rivolta al secondo punto in agenda, “il conflitto in Ucraina orientale e l’annessione illegale della Crimea e di Sebastopoli da parte della Russia e l’implementazione degli accordi di Minsk”. Da un lato, infatti, il conflitto nell’Est del paese è entrato nel suo quarto anno senza che l’UE sia riuscita a farsi promotrice di una soluzione sostenibile, dall’altro invece Bruxelles si è fatta paladina di un processo di riforme strutturali storico in Ucraina, in cui si è impegnata a sostenere con quasi 13 miliardi di Euro fino al 2020 importanti riforme del paese, tra cui la lotta alla corruzione, la riforma della giustizia, le riforme costituzionali e quella dell’amministrazione pubblica.
Se è vero che si stanno intensificando gli sforzi sia a livello europeo che ucraino per contrastare e riconoscere la propaganda russa, è anche vero che Kiev sta forzando la mano, limitando lo spazio della libertà di espressione e di accesso alle informazioni. Recentemente Human Rights Watch ha accusato Kiev di aver compiuto dei notevoli passi indietro quanto al rispetto di tali diritti, sanciti dal Patto internazionale dei diritti civili e politici e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di cui l’Ucraina fa parte. Lo scorso maggio, un decreto presidenziale ha bloccato l’accesso pubblico a piattaforme e social media russi in Ucraina, come Odnoklassniki, VK (usato dal 70% degli ucraini), il motore di ricerca Yandex e il server di posta Mail.ru. Già in aprile il Presidente aveva firmato una legge in cui si richiedeva ai soli giornalisti e attivisti che investigassero casi di corruzione di rendere pubblici i loro redditi personali, così come imposto dalle misure anti-corruzione ai dirigenti pubblici qualche mese prima.
Kiev non sembra neanche riuscire a garantire un ambiente privo di minacce agli operatori dei media, visto che l’assassinio con un’autobomba del famoso giornalista Pavel Sheremet nel centro di Kiev l’estate scorsa è rimasto impunito. Ancora lo scorso anno, i nomi e i dati personali dei giornalisti ucraini e internazionali accreditati nelle repubbliche separatiste sono trapelati sul sito Myrotvorets, e gli stessi sono stati accusati, con la compiacenza di alcuni politici al governo e di alti funzionari pubblici, di essere sostenitori dei “terroristi filo-russi”.
Infine, dopo che in maggio oltre 150 paesi erano stati attaccati dal misterioso virus WannaCry che aveva infettato oltre 200mila computer di aziende private e pubbliche, una variazione dello stesso, soprannominato Petya, ha bloccato molti servizi nella capitale ucraina lo scorso 27 giugno. Siti e servizi di istituti creditizi, poste, uffici governativi, aeroporto internazionale e metropolitana sono rimasti inattivi per ore. Perfino alcuni controlli di routine presso la centrale di Chernobyl sono stati condotti manualmente.
Il Ministero degli Interni ha subito puntato il dito contro la Russia, nonostante anche importanti aziende internazionali comprese le russe Rosneft (compagnia energetica) e la Evraz (azienda siderurgica) avessero subito l’attacco dello stesso virus. Secondo la maggioranza degli esperti il virus aveva l’obiettivo principale di creare scompiglio sui server ucraini, mostrando al mondo la debolezza dell’apparato di difesa cibernetica, nonostante gli ingenti programmi di sostegno finanziati dalla Nato.
Tenuto conto di quanto Kiev sia riuscita a ottenere da Bruxelles negli ultimi mesi, la domanda sorge spontanea: quale incentivo proporre oggi all’Ucraina, nonostante il conflitto che la divora ad Est e le numerose riforme strutturali che mettono a dura prova la tenuta del governo? L’ex Segretario Generale della Nato Rasmussen ha proposto di recente una road map per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione doganale europea, così come in vigore dal 1996 con la Turchia. Alcuni esperti, invece, hanno paventato la possibilità di rendere più complicato il disborso delle tranche di assistenza macro finanziaria fornita dall’UE, la prossima in arrivo a ottobre per un importo di 600 milioni di euro. L’Italia e l’UE non devono dimenticare Kiev, e assicurarsi che la condizionalità che ha fatto il successo delle politiche europee di vicinato si rinnovi con nuove proposte.
Cono Giardullo
Salernitano, piccione viaggiatore, classe 1986. Attualmente in forze all’OSCE in Ucraina, dopo trascorsi in Centro Asia, con base a Bishkek, e Maghreb, partendo da Tunisi. Sempre occupandosi di diritti umani, ricerca e lavoro si basano su questioni relative allo stato di diritto in contesti post-rivoluzionari o di conflitto. Laureato in Giurisprudenza a Ferrara, con pit stop a Parigi, ha concluso gli studi al Collegio d’Europa in Relazioni Internazionali dell’UE. Dopo le lingue latine, si è dato al russo, non sapendo se ne porterà mai a termine lo studio, mentre collabora regolarmente con AffarInternazionali.it occupandosi di Europa orientale. Su Twitter appare come @conogiardullo