di Arturo Varvelli*
Ci risiamo, verrebbe da dire. Francia e Italia sono due dei principali partner europei ma da sempre sono due storici rivali nel Mediterraneo. Gli interessi sono spesso divergenti e il caso della Libia lo dimostra più di tutti. Dopo circa un anno di assenza di Parigi sul capitolo libico il neo-presidente Macron rilancia il ruolo francese. Circa un anno fa tre agenti dei servizi francesi venivano uccisi in Libia mentre fornivano supporto al generale Khalifa Haftar, il leader militare della Cirenaica. Da allora Hollande aveva sospeso ogni iniziativa, almeno a livello pubblico. Ora Macron torna in scena convocando il presidente del Consiglio Presidenziale del Governo di Unità Nazionale (GNA, voluto dalle Nazioni Unite) e il suo rivale, appunto il generale Haftar. Ciò avviene senza una vera interlocuzione e preparazione con gli altri attori internazionali se non con un preventivo raccordo con il Regno Unito, secondo quanto riportato dalla stampa internazionale.
Cosa ci dobbiamo aspettare? Partirei da cosa non ci deve sorprendere. Non sorprende in realtà che Parigi non chiami Roma. Roma non ha chiamato Parigi negli ultimi mesi. Il ministro degli Interni Marco Minniti e quello degli Esteri Angelino Alfano hanno fatto la spola costante tra Italia e Libia, con alterne fortune a dire la verità. Minniti si è recato più volte nel Fezzan, il sud della Libia, che storicamente la Francia considera una propria sfera di influenza affine al mondo saheliano di cui è padrino e nel quale Macron ha compiuto il primo viaggio all’estero per rimarcarne la centralità nel disegno francese di “françafrique”. L’Italia è comunque in grado di una profondità di dialogo (con le milizie, con i rappresentanti locali e tribali) che la Francia in questo momento non ha. L’Italia ha richiamato la Francia su un aspetto importante: ha cercato di evidenziare come i tutti i flussi migratori che arrivano in Libia passino dal Niger, chiedendo a Parigi di farsi carico di questo aspetto.
Ma l’Italia è oggi sotto accusa perché si sarebbe fatta “scippare” la Libia dalla Francia a causa della propria inattività. Lo sentiamo ripetere almeno dal 2011, ossia da quando i francesi seguendo le volatili percezioni di cambiamento della rivolta libica decisero di assecondare i gruppi armati anti-gheddafiani. Non andò a finire bene e la Francia non ci ha guadagnato nulla. La Libia è ancora lì con una serie di problematiche difficilmente risolvibili da un vertice rapidamente preparato dalla diplomazia del pur caparbio ministro degli esteri Le Drian.
Secondo punto quindi: non ci dobbiamo aspettare un risultato decisivo. Stupirebbe il contrario. Se fonti del Consiglio presidenziale di Tripoli rivelano oggi a Repubblica che il presidente Serraj ha deciso di volare a Parigi solamente per rispetto nei confronti del presidente Macron, ma che incontrerà Haftar solo a titolo personale e non per un negoziato, l’iniziativa francese nasce morta. Oppure no ed è utile, ma non alla soluzione della crisi politica libica. È utile a Macron per segnare il territorio. Sancisce alla comunità internazionale e al nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite, il professore libanese con trascorsi a Sciences Po Ghassan Salamé, che gli interessi francesi vanno tenuti ben presenti. Ribadisce, al di là di tutte le dichiarazioni di facciata, che Haftar gode ancora dei favori di Parigi e che è un punto fondamentale sul quale ricostruire gli equilibri del paese. Costituisce inoltre una bella vetrina per Macron dotandolo di una allure internazionale di mediatore.
In realtà ci sarebbe bisogno di un coordinamento. È logico che ogni attore internazionale abbia i propri interessi. È illogico continuare a perseguirli reiterando il risultato di una “somma zero”. L’Italia è in una posizione privilegiata per conoscenza del paese, per familiarità con molti degli attori locali e per la presenza della propria ambasciata – al momento l’unica tra i paesi occidentali – a Tripoli. Ma l’Italia da sola non potrà cambiare le sorti della crisi libica sovvertendo dinamiche centrifughe che hanno radici interne ed esterne, determinate dalla continua azione di pressione e influenza sugli attori locali da parte delle potenze esterne. Come evidenziato in un recente rapporto ISPI – Atlantic Council descrivere la situazione libica come una lotta tra due fazioni, ricorrendo alla divisione tra GNA di Tripoli da una parte e Parlamento di Tobruk/Haftar dall’altra, e ai rispettivi protettori internazionali, sarebbe oggi una semplificazione eccessiva. Non solo perché al loro interno i due campi appaiono variamente compositi, tanto che sembra sempre più difficile pensare che una delle due parti, da sola, abbia la capacità di unificare militarmente il paese sotto il proprio controllo; ma anche perché l’ultimo periodo ha mostrato una grande mutabilità delle alleanze tra le varie fazioni o gruppi, che non sembrano omogenei né all’una né all’altra fazione. Questa divisione tra gli attori locali, e al contempo tra quelli internazionali, appare destinata ad aumentare insieme al venire meno della capacità dello Stato Islamico (IS) di controllare parte del territorio libico. La presenza di IS a Sirte aveva infatti focalizzato contro di esso le attenzioni di molti attori locali e internazionali, contribuendo a creare una momentanea convergenza nella lotta al gruppo.
Più che convocare Haftar e Serraj quindi sarebbe importante convocare gli attori internazionali più influenti, trovare una posizione comune e parlare con una sola voce ai libici. È forse illusorio, ma è l’unica soluzione. Ormai da sei anni a questa parte.
Arturo Varvelli è Senior Research Fellow presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano