Rafsanjani, la rivoluzione e il prezzo dei meloni

“L’economia è una faccenda da asini (khar). Abbiamo fatto la rivoluzione per l’islam, non per il prezzo dei meloni (kharboza)”. Così parlò l’ayatollah Khomeini in un discorso a Qom nell’agosto 1979, pochi mesi dopo la vittoria della rivoluzione: la neonata repubblica islamica di Iran aveva abbandonato la corona per il turbante, il vicario dell’imam sedeva sulla poltrona di Guida della rivoluzione, l’antica utopia dello stato islamico diveniva realtà a Teheran, eppure bisognava dare una risposta anche a quelle masse di diseredati, mostazafin, che alla rivoluzione avevano chiesto giustizia e riscatto sociale. Deviando l’attenzione dalle cose terrene come il prezzo dei meloni, Khomeini inaugurava un difficile decennio: la lunga guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, che impegnò i due paesi per otto lunghi anni (1980-1988) servì da una parte a cementificare le fondamenta della neonata Repubblica islamica, bagnandole nel sangue dei giovani shahid spediti al fronte con le chiavi del paradiso al collo, dall’altra però paralizzò il processo politico interno, subordinando ogni istanza di ricostruzione del paese all’esigenza della “sacra difesa”.

Khomeini morì nel 1989 e forse non è esatto dire che gli succedette Ali Khamenei. Forse gli storici un giorno riconosceranno che a succedergli fu Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, all’epoca cinquantacinquenne. L’hojjat-ol-islam Rafsanjani, proveniente da un’agiata famiglia di produttori di pistacchi, godeva di un consistente patrimonio personale e vantava una solida rete d’appoggio presso il bazaar. Formatosi a Qom sotto la guida anche di Khomeini, divenne presto parte della cerchia ristretta dei fedelissimi, restando accanto all’ayatollah prima, durante e dopo la rivoluzione, tanto che lo stesso Khomeini avrebbe dichiarato “finché c’è Rafsanjani, ci sarà la Repubblica islamica”. Proprio Rafsanjani fu cruciale nel portare l’anziano ayatollah, nei suoi ultimi mesi di vita, alla decisione di “bere l’amaro calice” e mettere fine alla guerra con l’Iraq. Una intuizione fondamentale, che sarebbe stata la cifra di tutto l’operato politico e non solo di Rafsanjani da quel momento in poi: per salvaguardare l’esistenza della Repubblica islamica, essa andava protetta soprattutto da se stessa. Difficile se non impossibile governare sulle macerie: non quelle delle città vicine al confine iracheno bombardate dall’aviazione di Saddam, bensì quelle più profonde, interne al sistema: nel 1988 il prodotto nazionale lordo iraniano era pari a quello di ventuno anni prima, vale a dire precedente a quel periodo di modernizzazione forzata varata dallo shah che era stata una delle cause della rivoluzione, il reddito degli iraniani era sceso del 40%, l’inflazione era alle stelle e 1,6 milioni di persone non avevano più una casa.

Con Rafsanjani nel ruolo di presidente e Ali Khamenei in quello di Guida suprema la Repubblica islamica aveva finalmente il suo Termidoro: “ricostruzione” divenne la parola chiave della Seconda repubblica iraniana, una repubblica in cui grazie all’emendamento costituzionale che aveva eliminato la figura del primo ministro e accentrato il potere esecutivo nelle mani del presidente, Rafsanjani si preparava a fare da kingmaker, coadiuvato da una vasta schiera di tecnocrati, del nuovo programma di sviluppo del paese. Per far ripartire l’economia era però necessario che l’Iran uscisse dallo stato di isolamento internazionale in cui era stato – o si era – rilegato dopo la rivoluzione e la guerra con l’Iraq: da qui le aperture di Rafsanjani prima verso Russia e repubbliche ex-sovietiche e poi verso l’Europa, con l’inaugurazione del “dialogo critico” il cui scopo ultimo doveva essere l’attrazione di capitali stranieri da unire a un processo di liberalizzazione economica interna. Alla ricostruzione di Rafsanjani faceva però da contraltare la costruzione, da parte di Khamenei, di un potente blocco burocratico in grado di favorirne l’ascesa politica. Khamenei infatti, privo tanto del carisma di Khomeini quanto dell’autorità teologica che doveva giustificarne l’autorità politica, procedette negli anni alla creazione di un vasto e capillare network di sostegno, parte fondamentale del quale fu la cooptazione degli ambienti militari in attività economiche statali o parastatali.

Al grido di “ricostruzione e sviluppo” il governo Rafsanjani varò un piano quinquennale che prevedeva una politica monetaria aggressiva, ingenti investimenti nelle infrastrutture, la creazione di zone speciali di libero commercio e altre misure per attrarre investimenti esteri, ma soprattutto una massiccia privatizzazione delle imprese statali. Tutte misure che costarono a Rafsanjani, che pur era implicato in affari e malaffari, le accuse di essere “amico dei capitalisti” e “propagatore dell’islam americano”. I radicali che sedevano nel Majles, il parlamento, non gli lasciarono molto margine d’azione: ebbero gioco relativamente facile nell’accusarlo di difendere gli interessi dei mostakbarin, gli “arroganti”, sia all’interno del paese, tramite le riforme di cui in ultima analisi avrebbero beneficiato solo i benestanti, sia all’esterno, aiutando le superpotenze a realizzare il loro piano di rinnovata subordinazione dell’Iran ai propri interessi.

Gli sforzi di Rafsanjani nel ricostruire l’economia del paese rimarranno in gran parte frustrati, mentre negli angoli più reconditi del sistema si andavano a creare rendite di posizione che avrebbero reso ogni sforzo di riforma profondamente, inesorabilmente, vano. Sforzi che proseguirono anche durante i due mandati di Mohammad Khatami, il presidente filosofo. Anche con Khatami, nonostante un aumento delle rendite petrolifere e una diminuzione della popolazione, il grande afflato riformatore rimase però in larga parte lettera morta: qualsiasi tentativo di liberalizzazione andava inevitabilmente a infrangersi contro lo scoglio rappresentato da conservatori religiosi e ultra-radicali, la cui paura dei “complotti stranieri” e la cui enfasi sull’autosufficienza si traducevano in un’opposizione dogmatica ai rapporti con l’Occidente, tant’è vero che la legge sugli investimenti esteri diretti venne approvata a fatica e imponendo un limite agli IDE del 35% nel settore industriale e del 25% negli altri settori. A bloccare qualsiasi processo di privatizzazione erano poi i potenti conglomerati economico-finanziari rappresentati dalle bonyad, legate a doppio filo all’élite di potere iraniana e ai pasdaran. La mancanza di posti di lavoro, unita all’aumento del costo della vita, causò una riduzione del benessere individuale e andò ad esacerbare il rancore di quanti appartenevano alle classi più disagiate e si sentivano di fatto esclusi dalle politiche del governo riformista, troppo occupato, secondo loro, a dibattere di questioni intellettuali e di libertà di espressione, tutte cause nobilissime, ma con le quali non si assicurava la sopravvivenza fisica e il diritto a condurre un’esistenza dignitosa dei propri cittadini.

Fu proprio questo rinnovato – o forse mai assopito – discontento tra i mostazafin che dette il colpo di grazia alla già traballante esperienza riformista. Ciò fornì un ottimo spunto alla campagna elettorale degli ultra-radicali, incentrata sui temi della giustizia sociale, della redistribuzione della ricchezza e della lotta alla corruzione e alle “mafie” economiche – delle quali Rafsanjani era l’emblema. Pur rappresentando la “seconda generazione” di rivoluzionari, la cosiddetta “generazione del fronte”, formatasi non con la rivoluzione ma con la guerra Iran-Iraq, Ahmadinejad riprese e fece propria la retorica dei rivoluzionari “di prima generazione”. Forte della propria umile origine – era figlio di un fabbro – egli si proponeva come “l’uomo del popolo”, venuto a dare finalmente ascolto alle istanze di quegli oppressi e diseredati ai quali la Repubblica islamica aveva promesso riscatto e ricompense, ma che a vent’anni dalla rivoluzione versavano ancora nelle stesse, indigenti, condizioni. Poco importa se durante il suo mandato il paese ha conosciuto la seconda più grave crisi economica dai tempi della guerra con l’Iraq. L’inasprimento della retorica radicale e il nuovo via libera agli “elmetti” portarono a una nuova, pesante, fase di isolamento, esacerbata dall’imposizione internazionale delle sanzioni per il programma nucleare.

“Non abbiamo fatto la rivoluzione per il prezzo dei meloni”, diceva Khomeini, eppure a quarant’anni di distanza dalla rivoluzione il prezzo dei meloni è tornato protagonista per spiegare quella che è stata salutata come la più grande svolta recente della storia politica della Repubblica islamica: l’elezione, nel giugno 2013, di Hassan Rouhani, lo “sceicco della diplomazia”, eletto con il chiaro mandato di porre fine a sanzioni e isolamento internazionale e dare agli iraniani, se non le discettazioni colte sulla democrazia islamica dei riformisti, almeno il melone a prezzi accessibili promesso dai pragmatici. L’elezione di Hassan Rouhani ha significato però anche il “ritorno” di Hashemi Rafsanjani: senza il suo appoggio e senza le sue manovre dietro le quinte per unire i fronti dei riformisti e dei conservatori pragmatici, l’esito delle elezioni non sarebbe stato scontato. E invece la sua intuizione del 1989, la necessità di aprire le valvole del sistema al fine di evitarne l’implosione, ha avuto la meglio.

Secondo l’International Energy Agency, nel corso del 2012, dopo l’entrata in vigore dell’embargo sul petrolio iraniano, la produzione di petrolio del paese è scesa da 3,7 milioni di barili al giorno a 2,65 milioni, con una perdita di 40 miliardi di dollari solo in proventi petroliferi. Alla diminuzione delle rendite petrolifere ha fatto seguito la riduzione delle riserve di valuta internazionale, causando il drastico aumento del tasso di cambio sul mercato interno e facendo precipitare la valuta nazionale: da 13.000 Rial per un dollaro a fine 2011 si è passati a 32.500 Rial a ottobre 2012. A tali effetti nefasti delle sanzioni si accompagnavano – e si accompagnano tutt’oggi – le croniche insufficienze strutturali: un tasso di inflazione storicamente elevato, associato a una crescita generalizzata dei prezzi, e un tasso di disoccupazione altrettanto storicamente elevato, mentre il sistema rimane bloccato dalle rendite di posizione. Se la firma dell’accordo sul nucleare prometteva di risolvere i problemi più contingenti alle sanzioni, in primo luogo dando nuova linfa al settore petrolifero, i problemi più strutturali rimangono il target dell’azione più ampia da parte del governo di Rouhani.

Oggi però, che gli effetti del deal tardano ad arrivare nonostante sia passato un anno dall’implementation day, problemi contingenti e problemi strutturali sono sempre più collegati: impossibile attirare davvero gli investitori internazionali se il sistema non si apre e non fornisce adeguate rassicurazioni in termini di trasparenza e affidabilità. Lo sanno bene gli oppositori di Rouhani, già oppositori di Rafsanjani, che attendono il presidente al varco delle prossime elezioni presidenziali, previste per il 19 maggio prossimo. È anche e soprattutto sugli effetti positivi del deal che Rouhani si giocherà la rielezione: dovrà riuscire nello sforzo di convincere gli iraniani a dare un secondo tempo alla speranza, che uscendo da un sistema sanzionatorio così complesso quale era quello verso l’Iran è normale che i tempi di ripresa siano lunghi, che ogni sforzo profondo di riforma del sistema richiede tempo. Con ogni probabilità Rafsanjani era pronto a gettare ancora una volta tutto il suo peso politico in difesa di quella visione, a manovrare tra le fazioni per portare acqua alla propria corrente. Ironia della sorte: questa settimana arriverà a Teheran il primo Airbus A321, che rientra nel contratto da 19 miliardi di dollari siglato dall’Iran con Airbus per la consegna di 100 velivoli. Un primo risultato visibile e tangibile del deal. Ma Rafsanjani non sarà lì a vederlo.

 

 

Questo articolo è stato pubblicato in versione ridotta su “Il Foglio” del 10 gennaio 2017.

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