È lancinante la contrapposizione tra i festeggiamenti di Gerusalemme Ovest, dove dignitari plaudenti si sono recati per festeggiare l’apertura dell’ambasciata statunitense nella Città Santa, nella data del 70esimo compleanno dello Stato d’Israele, e gli scontri che avvenivano a pochi chilometri di distanza, vedendo la morte di 59 persone ed il ferimento di più di 2.000. Né può essere derubricato ad orrenda casualità il fatto che nelle ore in cui si celebra la true friendship tra Stati Uniti ed Israele (“È un grande giorno!” ha esultato Donald Trump) ai confini di Gaza si consumi l’ennesimo massacro.
Risulta evidente una precisa responsabilità della politica estera americana. È noto, infatti, che il conflitto arabo-israeliano non sarà risolto finché non sarà sciolta la questione sullo status di Gerusalemme, terra di molteplici appartenenze e identità, proclamata da Israele propria Capitale e non riconosciuta in quanto tale dalla gran parte degli Stati del mondo.
Già nel dicembre scorso, quando Donald Trump aveva annunciato la volontà di trasferire l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, voci di dissenso si erano levate da parte della Comunità internazionale, l’Assemblea generale della Nazioni Unite aveva bocciato la decisione e gli scontri nel mondo arabo avevano preso fuoco. Un’intenzione, quella comunicata, che sapeva più della provocazione che dell’impegno, tanto che il Segretario di Stato Rex Tillerson si era affrettato a precisare che lo spostamento non si sarebbe realizzato a breve, e quasi sicuramente non prima della fine del mandato del Presidente americano. Al contrario, Tillerson oggi non è più Segretario di Stato, sollevato dall’incarico senza troppi riguardi, ma Trump ha deciso di compiere il trasloco nel giorno in cui Israele festeggia la sua nascita e che ai palestinesi ricorda la nakba, la catastrofe, l’esodo di centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare le proprie case. Un evento che segue 2 mesi di proteste, che avevano già fatto 40 morti. In questo modo, il Presidente americano ha dato attuazione al Jerusalem Embassy Act, approvato dal Congresso nel 1995 e la cui implementazione era finora sempre stata rinviata dai Capi di Stato americani, in quanto, come pure disse Clinton, amico di Israele, “avrebbe potuto ostacolare il processo di pace”. Altri Paesi potrebbero seguire gli Stati Uniti nella scelta (Guatemala, Paraguay, Honduras) e 4 sono gli Stati europei che hanno presenziato all’inaugurazione dell’ambasciata USA a Gerusalemme (Romania, Repubblica Ceca, Austria e Ungheria), alcuni dei quali rappresentano il volto più nazionalista e xenofobo dell’Unione.
Tuttavia, a spostarsi insieme all’ambasciata americana, è, cosa ancora più grave, il baricentro della politica estera a stelle e strisce. Infatti, da decenni, pur nel quadro di una consolidata amicizia tra i due Paesi, oltre che di rapporti economici, sociali e culturali strettissimi, gli Stati Uniti hanno tradizionalmente provato a svolgere una funzione di mediazione tra le parti e di facilitazione del percorso di pacificazione. Trump, probabilmente per ragioni di politica interna, sceglie di interrompere in modo marcato questa linea e di schierarsi al fianco di uno dei due soggetti in campo, collocandosi senza mezze misure a sostegno della destra di Netanyahu, che contende la guida sia della politica israeliana sia del movimento sionista.
Non è solo nell’ambito del conflitto israelo-palestinese che Trump e alleati aprono una nuova fase. Il ritiro dell’accordo sul nucleare con l’Iran, quando il JCPOA rappresenta un fattore di stabilizzazione dell’area e di freno alla proliferazione nucleare, le conseguenze in termini di indebolimento delle parti moderate e riformiste iraniane e di irrobustimento delle forze reazionarie, con il seguito di tensione in regione, a partire dallo scenario siriano; gli scontri militari tra Israele e Iran proprio in Siria; le sanzioni comminate negli ultimi giorni da Usa, Arabia Saudita e Paesi del Golfo ad Hezbollah, uscita rafforzata dalle elezioni in Libano; il ruolo di Russia e Turchia e le opportunità economiche, politiche e strategiche che si aprono per la Cina in regione sono alcuni degli elementi principali che compongono il quadro.
Emerge, quindi, l’insufficienza della politica estera europea, nonostante l’impegno indiscutibile e la determinazione dell’Alto rappresentante Federica Mogherini. Sugli scontri di Gaza, l’UE non riesce ad andare oltre le pur giuste dichiarazioni di condanna dell’uso sproporzionato delle armi da fuoco israeliane e del disprezzo del diritto di manifestare pacificamente del popolo palestinese e di biasimo per la facilità con cui le leadership palestinesi continuano a non riconoscere l’esistenza dello Stato israeliano e Hamas non si cura di evitare la morte di centinaia di persone. Non si è in grado, invece, di evitare stragi già previste, e che in questo caso si ripetono da settimane, di intervenire in maniera effettiva a tutela dei diritti umani e civili della popolazione palestinese, che vive una grave crisi umanitaria, e di favorire la fine del blocco di Gaza. Allo stesso modo non mancano le prese di distanza dalle decisioni unilaterali di Trump, così come gli appelli alla moderazione, ma non s’intravede una forza politica in grado di limitare il raggio d’azione del trait d’union che lega la destra americana e quella israeliana, lavorando su un progetto di pacificazione in Terra Santa, che abbia il coraggio di muoversi su strade nuove rispetto al passato; forse è tempo, ad esempio, di prendere atto che la soluzione “due popoli in due Stati”, ripetuta come un mantra per decenni, oggi risulta difficilmente praticabile, a causa dei tanti sviluppi della storia recente, che procede nonostante l’attendismo della politica internazionale, e che c’è necessità di inventare formule nuove per risolvere il conflitto israelo-palestinese.
Similmente non è sufficiente l’indignazione per una Presidenza americana che arriva a minacciare sanzioni verso Paesi alleati, nel caso di mancato ritiro del JCPOA, o la volontà di mantenere fede agli impegni presi. Né si possono registrare in modo impotente le pericolose e provocatorie decisioni assunte da altri Stati: a queste bisognerebbe rispondere agendo in maniera unitaria e a tutti i livelli come fattore di stimolo alla comunità internazionale e di stabilità, pacificazione, creazione di benessere, soprattutto se si tratta di aree limitrofe e di interesse strategico. Alla critica delle azioni altrui, va fatta seguire un’iniziativa politica e diplomatica che sia all’altezza delle ambizioni di un grande attore globale. È una grande sfida per il pensiero progressista.
Anche per questo, perché crediamo che i temi della giustizia, della pace e della prosperità del mondo debbano essere in cima alle preoccupazioni della politica e della sinistra in particolare, abbiamo deciso come Giovani Democratici di ospitare il 22 e il 23 giugno prossimi a Roma il Comitato Mediterraneo dell’Unione Internazionale dei Giovani Socialisti, che porterà in Italia 20 giovani dirigenti politici delle forze socialiste e democratiche di Israele, Palestina, Libano, Marocco, Tunisia, Sahara Occidentale, Spagna, Portogallo, Cipro, Malta, Iran, Iraq per discutere insieme a noi e a politici ed esperti del nostro Paese delle politiche utili alla risoluzione dei conflitti e alla costruzione della pace, al governo dei flussi migratori, ad alimentare la partecipazione pubblica dei più giovani in Stati nei quali molto spesso l’impegno politico pregiudica la propria vita. Crediamo possa essere un’ottima occasione per dare centralità a questi temi nel dibattito e riteniamo giusto che a farlo debba essere la nostra generazione.
Caterina Cerroni – Vicepresidente dell’Unione Internazionale dei Giovani Socialisti (IUSY)
Michele Masulli – Presidente dei Giovani Democratici