Diseguaglianza e globalizzazione: quanto ne sappiamo davvero?

di Eugenio Dacrema 

Qualche settimana fa su MondoDem si parlava dell’incapacità di gran parte della sinistra di indirizzare il sentire comune. Uno dei motivi è che su molti temi fondamentali dell’oggi abbiamo idee deboli, quando non drammaticamente contraddittorie. Per esempio, ineguaglianza e globalizzazione sono due temi su cui, soprattutto a sinistra, pensiamo di saperla lunga. Ma forse non è così, e se davvero desideriamo chiarire cosa pensiamo e cosa vogliamo su questioni così importanti è bene affrontarne la complessità.

Cominciamo con la faccenda dell’ineguaglianza. A questo proposito esiste una narrativa piuttosto diffusa e accettata: negli ultimi decenni, a causa dell’introduzione di riforme cosiddette neoliberiste, le disuguaglianze in tutto l’Occidente sono aumentate enormemente, causando crescenti sentimenti di frustrazione e alienazione tra le fasce più povere e andando a favorire la crescita dei partiti populisti. Giusto? Sbagliato.

Un primo errore di questa ricostruzione è parlare del fenomeno per tutto l’Occidente allo stesso modo, e pensare che argomentazioni che si adattano a una realtà come, per esempio, quella americana siano perfettamente applicabili anche da noi. Non è così, primo perché la disuguaglianza americana è molto più alta di quanto lo sia in Europa, ed è cresciuta a ritmi assai più sostenuti dagli anni Ottanta ad oggi. Il secondo è che, al contrario, in Europa, e soprattutto in Italia, la diseguaglianza è rimasta pressoché stabile negli ultimi due decenni. L’ultima volta che nel nostro paese si è assistito a un vero aumento è stato all’inizio degli anni Novanta. Poi, a parte oscillazioni alquanto trascurabili, intorno a un punto nell’indice di Gini[1], è rimasta stabile (nel 1995 era 32,7, nel 2015 33,3, mentre nello stesso periodo negli Usa è passata da 36 a 39, un aumento quasi sei volte superiore). Questa confusione deriva da un altro errore che si riscontra comunemente nel dibattito pubblico sulla disuguaglianza, ovvero quello di approssimare la percezione della disuguaglianza alla disuguaglianza reale. È vero infatti che se pure i dati reali non sono cambiati di molto da vent’anni a questa parte, la percezione è cresciuta notevolmente; la gente, insomma, percepisce disuguaglianze crescenti nonostante nella realtà queste non siano cresciute granché. Come è possibile ciò? Almeno parte della risposta la si può trovare nei risultati delle ricerche condotte in questi anni sulle percezioni economico-sociali delle persone, soprattutto in merito al proprio status e al proprio benessere. Richard Easterlin, per esempio, dimostrò che la crescita economica si correla all’aumento del benessere percepito solo all’inizio di un ciclo di crescita. Dopo qualche anno, infatti, il benessere percepito comincia a rimanere piatto pur di fronte a una crescita in continuo aumento (il cosiddetto Paradosso di Easterlin). Studi più recenti hanno invece affrontato direttamente il tema della percezione della diseguaglianza. Giacomo Corneo e Hans Gruner nel 2000 dimostrarono come la percezione di diseguaglianza in molti paesi europei non combacia minimamente coi dati reali ma tende a essere condizionata da valori diffusi tra la popolazione. Per esempio, negli ex paesi socialisti, dove decenni di comunismo reale avevano diffuso una forte sensibilità al tema, la percezione di disuguaglianza risultava molto più alta rispetto ai paesi anglosassoni, nonostante nei primi i dati reali mostrassero disuguaglianze assai inferiori rispetto ai secondi. Un fenomeno simile veniva registrato anche in paesi caratterizzati da un forte welfare redistributivo come la Francia. In seguito, numerosi altri studi, come quello di Alesina e Giuliano nel 2000, quello di Gimpelson and Mosusova del 2014 e quello di Brunori del 2017 hanno dimostrato con metodi quantitativi come la percezione di disuguaglianza non sia in nessun modo influenzata dal reale livello di disuguaglianza esistente, mentre risulta fortemente correlata con altri fattori sociali quali i valori socialmente diffusi sul tema, l’etica del lavoro e, soprattutto, il livello di mobilità sociale. È in particolare la mobilità sociale che emerge come il fattore più influente nel determinare la percezione di diseguaglianza in una popolazione. Una realtà, in fondo, spiegabile semplicemente con il fatto che se una persona ha la percezione concreta di poter scalare la piramide avrà meno la sensazione che tale piramide sia ingiusta, o particolarmente alta o ripida. Al contrario, qualunque sia l’altezza reale della piramide, per un soggetto che percepisce di non avere alcuna chance di farcela la piramide risulterà sempre (ingiustamente) altissima. “Gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili”, canta Frankie Hi-NRG, e questo il più delle volte non dipende tanto dalla distanza tra primi e ultimi ma dagli ostacoli presenti sul percorso. Ne consegue che in società caratterizzate da un livello di diseguaglianza medio-basso, come gran parte delle nazioni europee, la percezione negativa di crescente disuguaglianza è probabilmente il frutto di una mobilità sociale inceppata da anni più che di una reale arricchimento dei già ricchi a discapito dei più poveri. Una realtà che stride fortemente con la narrativa diffusa e che ci dovrebbe far riflettere su che tipo di politiche intendiamo davvero quando parliamo di “lotta alla disuguaglianza”.

Il secondo tema, molto legato al primo, è quello della cosiddetta dicotomia tra “perdenti” e “vincenti” della globalizzazione. Anche in questo caso la narrativa diffusa è piuttosto chiara: l’apertura e la liberalizzazione dei mercati e dei flussi finanziari ha determinato l’arricchimento di una fascia ristretta di popolazione che ha saputo approfittare delle occasioni di investimento e di mobilità concesse dalla globalizzazione, anche grazie a una privilegiata posizione di partenza. Al contrario, le classi medie e basse sono rimaste danneggiate dai prodotti esteri e dalla competizione posta dalla forza di lavoro straniera che hanno portato a delocalizzazioni e schiacciamento dei salari. Per carità, gran parte di questa narrativa è ampiamente corroborata dai dati. È però, nel migliore dei casi, una narrativa solo parziale rispetto a quanto avvenuto nei decenni scorsi. Varrebbe la pena ricordare, infatti, come l’apertura dei mercati non ha portato solo compressione dei salari ma, ancora prima, ha portato compressione dei prezzi, soprattutto per quei prodotti diffusi tra le classi medio basse. Quelli che sono oggi accusano maggiormente Cina e paesi asiatici di aver sottratto industrie e posti di lavoro all’Occidente sono anche i maggiori consumatori dei prodotti provenienti da quei paesi. Una gran parte di quel benessere diventato scontato e che molti percepiscono oggi come declinante a causa della globalizzazione è in realtà formato per gran parte dall’accesso a prodotti e attività che proprio i primi decenni di apertura dei mercati hanno reso possibili. Vestiario e cibo, per non parlare di voli low cost, vacanze all-inclusive, e colf e badanti a basso costo; molti di costoro non si rendono conto esattamente cosa accadrebbe al loro accesso a beni e servizi che ormai considerano “di prima necessità” se la guerra commerciale a tutto campo propugnata dai loro beniamini populisti dovesse davvero cominciare. È una realtà finora poco esplorata, perché va contro la narrativa un po’ semplicistica ma romanticamente attraente del popolo oppresso dalle élite neoliberiste, ma che comincia a emergere finalmente anche a sinistra. In Italia se ne è fatto interprete in particolare Raffaele Alberto Ventura nel suo libro “Teoria della classe disagiata”. La globalizzazione andava bene a tutti quando noi ci trovavamo in cima alla catena alimentare, quando uno stipendio medio italiano era 10-20 volte quello di un operario cinese il cui lavoro ci consentiva di spendere meno della metà di un tempo in scarpe e viaggi pur mantenendo per il resto lo stesso livello salariale. Le cose sono cambiate quando gli altri hanno cominciato a scalare la stessa catena alimentare, avvicinandosi al nostro livello e attentando alle nostre posizioni consolidate. Forse dovremmo chiederci quindi se non valga la pena sottolineare con chiarezza quanto la globalizzazione forma oggi gran parte di quel benessere che noi diamo per scontato e che, anzi, siamo arrabbiati perché percepiamo in lenta diminuzione. Forse quello che dovremmo essere in grado di dire è che chiudere alla globalizzazione non farebbe che accelerare tale declino e che diventare competitivi non è un crudele mantra neoliberista ma l’unica risposta razionale a un mondo popolato da molta più che gente rispetto al passato che vuole, giustamente, quello che noi già abbiamo.

[1] L’indice di GINI è l’indicatore universalmente più utilizzato per misurare le disuguaglianze. Va da 0 (una situazione di completa uguaglianza in cui tutti godono dello stesso livello di ricchezza) e 1 (una situazione in cui una sola persona possiede tutta la ricchezza della società). La maggior parte dei paesi oscilla tra 25 e 40. Paesi con GINI intorno ai 40 o superiori sono considerati paesi ad alta diseguaglianza.

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