Dopo la guerra sanitaria (non ancora vinta) adesso la guerra è di natura commerciale e ruota intorno alla frenetica ricerca per scoprire il vaccino contro il Covid-19, ritenuto l’unica soluzione per cercare di frenare il dilagarsi del virus tra la popolazione mondiale. È una guerra combattuta tra avversari potenti, ossia le industrie farmaceutiche e i governi che stanno agendo seguendo una logica nazionalistica dal momento che, al di là del valore sanitario, il valore economico del vaccino è enorme. Non va sottovalutato, inoltre, il valore simbolico della corsa al vaccino che potrebbe essere paragonata alla corsa allo Spazio degli anni Sessanta. Si riuscirà ad avere un vaccino che sia, come auspicato dall’OMS e dalle Nazioni Unite, un “bene comune globale e pubblico”? O l’antidoto al virus sarà attanagliato dalle logiche privatistiche del monopolio brevettuale e dagli egoismi nazionali?
Tutto il mondo alla ricerca del vaccino per il COVID-19
Governi, case farmaceutiche e laboratori di ricerca stanno lavorando a un ritmo mai visto prima nella storia della ricerca medica: allo stato attuale si registrano 295 trattamenti e 109 vaccini in sperimentazione, di cui uno promosso dal tandem Italia – Regno Unito.
Allo stesso tempo, si assiste ad una collaborazione scientifica internazionale senza precedenti promossa, in prima battuta, dall’Unione Europea. A fine aprile, la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, insieme al direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ad Emmanuel Macron e a Melinda Gates, ha promosso un raccolta fondi a livello mondiale per raccogliere 7,5 miliardi di dollari e finanziare la ricerca per il vaccino contro il Coronavirus. L’iniziativa, detta “ACT Accelerator”, ha come obiettivo finale, oltre all’accelerazione dello sviluppo di test, farmaci e trattamenti contro il COVID-19, assicurarsi che tutto il mondo abbia accesso a queste cure. Von der Leyen ha annunciato che l’UE mobiliterà un miliardo di euro grazie alla partecipazione di una quarantina di governi, di organizzazioni internazionali e donatori privati. Anche l’Italia ha assicurato la sua partecipazione, con un contributo di 140 milioni di euro che sarà diviso tra CEPI (Coalition for epidemic prepardness innovations), OMS e Alleanza per l’immunizzazione globale dal Covid, formata da Italia, Olanda, Germania e Francia. In particolare, quest’ultima è una strategia di investimenti comuni per accelerare il processo di sviluppo di una cura efficace, negoziando con potenziali produttori e aziende farmaceutiche al fine di consentirne la produzione sul territorio europeo e garantire quantità e possibilità di accesso sufficienti per tutta l’Ue e per i paesi a basso reddito, in particolare in Africa.
Anche l’Italia alla rincorsa del successo medico
In questo contesto, il governo italiano da un lato collabora all’iniziativa europea, dall’altro ha cominciato, anch’esso, la corsa allo sviluppo di un vaccino nazionale. L’azienda Irbm di Pomezia sta, infatti, da tempo lavorando a misure cliniche preventive insieme all’Università di Oxford, anche se mancano ancora due mesi prima che possa partire la sperimentazione sull’essere umano del vaccino in studio allo Spallanzani di Roma, lo ChAdOx1 nCoV-19.
Il problema principale è che il vaccino non potrà essere subito disponibile per tutti: aziende e investitori, seguiti dagli Stati, vogliono vincere questa corsa per ottenere una posizione economica oltre che scientifica di primo piano. L’Italia rischia così di dover fare i conti con cifre di acquisto elevatissime: sarà infatti avvantaggiato non solo chi ha la ricerca sul territorio nazionale, ma soprattutto chi ha investito e finanziato di più la cura. L’azienda italiana che sta lavorando insieme ad una inglese ha già firmato un accordo di prelazione con Londra nel quale si stabilisce che il Regno Unito sarà il primo Paese ad avere accesso al potenziale vaccino, avendo stanziato più fondi per finanziarlo. Per quanto la prospettiva dello sviluppo nazionale di un vaccino sembri essere la migliore in termini non solo sanitari ma, soprattutto, di prestigio politico e strategico, allo stato attuale l’opzione più conveniente per Roma, nonché la più realistica, sarebbe quella di contribuire maggiormente all’iniziativa dell’Unione europea, non avendo realistiche prospettive di successo la corsa individuale al vaccino.
Lo scontro tra Cina e USA e il contesto geo-politico
All’iniziativa globale avviata su proposta dell’UE non hanno preso parte i due competitors internazionali per eccellenza: USA e Cina. Con l’epidemia si sono infatti acuite le tensioni fra Pechino e Washington, entrambi a rischio di pesanti ripercussioni: chi prima ne uscirà, ripartirà con una marcia in più per la ripresa della successiva corsa. Mentre Xi Jinping, pur perseguendo uno sforzo individuale, ha garantito la condivisione di una potenziale scoperta della cura contro il Covid19, l’America di Trump ha, ancora una volta, adottato una politica del tipo “America first”, il cui obiettivo è la realizzazione di un vaccino entro la fine dell’autunno – obiettivo che, tuttavia, non sembra scientificamente sostenibile. La Casa Bianca non ha, inoltre, partecipato al vertice globale sui vaccini fissato tenutosi il 4 giugno.
È chiaro dunque che la ricerca del vaccino, a cui fa da sfondo un contesto geo-politico già di per sé molto teso, avrà profonde implicazione di carattere politico, economico ed industriale. Una strategia competitiva, piuttosto che collaborativa, a livello internazionale sarebbe solamente controproducente: la pandemia è, al momento, una sfida globale per affrontare la quale un vaccino potrebbe non essere sufficiente, se non se ne assicurasse la reperibilità a livello globale. È infatti necessario che il vaccino copra tutto il mondo, non solo per equità ma anche per essere certi che l’epidemia non continui a covare e fare vittime, e quindi a generare instabilità economica e poi politica. In altre parole, il virus non sarà sconfitto da nessuna parte finché non sarà sconfitto ovunque. Come ha più volte ribadito la presidente Von der Leyen: «Battere il coronavirus richiederà un accesso prolungato su molti fronti. Abbiamo bisogno di una risposta globale a una pandemia globale».