I pianificatori militari della NATO avevano un incubo: il Fulda Gap, il lembo di terra della valle del Reno su cui si sarebbero scatenate le divisioni corazzate sovietiche e che l’Alleanza si preparava a contenere, eventualmente anche tramite l’impiego di armi nucleari tattiche.
Il Suwalki Gap è una striscia di terra lunga e stretta che coincide con il confine fra Polonia e Lituania: è questo, oggi, il principale candidato per un impiego di armamento nucleare tattico, se la situazione in Ucraina dovesse mettersi male. Quest’area è allo stesso tempo la congiungente fra due membri della NATO (ed EU) e il passaggio fra la Bielorussia e il territorio russo di Kaliningrad, che ci piace ricordare con il nome di Koenigsberg, la città di Kant, oggi gigantesca base militare ove stazionano anche missili balistici (e non) che possono essere, anzi molto probabilmente sono armati con testate nucleari.
Per i russi, questa potrebbe essere l’area ideale per testare la risolutezza dell’Alleanza Atlantica, magari dopo aver ‘lavorato sui fianchi’ con la consueta propaganda di stampo sovietico che ancora sembra aver presa nei media occidentali, spargendo disinformazioni tese a far apparire l’aggredito (l’occidente, l’Ucraina,..) come l’aggressore.
Putin ci ha esplicitamente minacciato con l’impego dell’arma atomica e successivamente ha firmato un ambiguo ordine di allerta delle forze nucleari, da un lato sintomo di debolezza delle sue forze convenzionali, capaci solo di sterminare la popolazione con impiego massiccio di fuoco indiretto secondo uno schema terrorista tragicamente ben noto da Grozny ad Aleppo, dall’altro irresponsabile atto d’intimidazione ed ‘escalation’ che ha costretto gli occidentali a ripensare radicalmente al ruolo delle forze nucleari.
I Primi Ministri europei devono imparare di nuovo la logica paradossale del conflitto nucleare, conferendo credibilità alla minaccia, anche perché potrebbero essere chiamati a prendere decisioni storiche nel giro di pochi minuti, e allora non ci sarà il tempo di leggere le decine di pagine di studi sulla materia.
Colpevolmente in Europa ci si è trastullati per lustri a seguire irresponsabilmente le sirene dell’irenismo, suggerendo la rinuncia unilaterale all’armamento nucleare, e si è data chiara impressione all’avversario che non vi fosse da parte occidentale una vera disponibilità ad un impiego dello stesso, minandone cosi alla radice la credibilità, e quindi l’efficacia, anche tardando l’ammodernamento delle piattaforme di lancio delle bombe aviolanciate ‘a doppia chiave’ NATO/nazionale tuttora presenti in Germania ed Italia.
Intanto la Russia ammodernava testate e mezzi di consegna soprattutto a livello tattico, e si trova ad avere un vantaggio di uno a tre in termini di testate no-strategiche, oltre a rivedere in termini particolarmente aggressivi le dottrine d’impiego delle stesse, che secondo diversi analisti ed osservatori è di fatto informata al principio ‘escalate to de-escalate’, ovvero prevede l’impiego in ‘first use’ anche contro forze convenzionali al fine di costringere il nemico a contenersi, trattando quindi da una relativa posizione di forza e riducendo di molto la soglia d’impiego.
Di fatto le forze armate russe hanno un grande incentivo a minacciare e usare armi nucleari per sopperire alle loro deficienze in ambito convenzionale; qualora lo facessero ci porrebbero davanti ad un gravissimo dilemma fra impiego e credibilità, e i numeri suggeriscono una chiara ‘escalation dominance’ russa, lasciando pertanto sempre ad essi l’iniziativa.
Se da un lato le armi nucleari dell’Alleanza Atlantica hanno sinora confermato il loro potere deterrente nei confronti di attacchi sul territorio della stessa (se non ci fossero state, ora saremmo a discutere di occupazione militare russa dei Baltici e della Polonia…), l’attuale dottrina NATO e americana ha mostrato tutti i suoi limiti, poiché il timore di un impiego di armi nucleari russo sta ottenendo gli effetti desiderati, non permettendo un impegno diretto convenzionale che sposterebbe decisamente la bilancia a favore dei resistenti ucraini.
L’aggiornamento della dottrina dovrebbe prevedere qualche forma di esplicita di ‘forward defence’, allargata al di fuori dell’immediato territorio dell’Alleanza, in casi di imminenza d’aggressione (come nel caso ucraino); per poter agire da deterrente ciò va reso chiaro al potenziale avversario anticipatamente.
E non solo la NATO dovrebbe pensarci: sulle prossime elezioni presidenziali americane aleggia lo spettro di Trump, l’uomo di Putin a Washington DC, e di un partito repubblicano ridotto a un comitato d’affari fondamentalmente anti-liberale, anti-democratico, anti-americano, isolazionista ed strutturalmente anti-europeo.
Non è improbabile che Putin abbia atteso e rinviato interventi pianificati già dal 2014 nella speranza che nel suo secondo mandato Trump distruggesse la NATO dall’interno, per poi ottenere ciò che voleva con un limitatissimo uso della coercizione.
La situazione attuale in cui si trova l’Ucraina è frutto dell’operato di due leader strutturalmente autoritari, e uno di questi è Trump.
Gli europei pertanto hanno circa tre anni per sviluppare un deterrente strategico allargato a partire da quello francese, grazie anche al capovolgimento della politica estera e di difesa tedesca avvenuto come conseguenza dell’aggressione russa e della totale perdita di credibilità di Putin e del suo apparato di lacchè.
A questo deve aggiungersi una credibile integrazione delle forze convenzionali di difesa dell’UE, poiché l’unica loro vera debolezza è la divisione generata dal carattere nazionale dei suoi apparati e la dipendenza tecnologica dagli USA; spendere di più non basterà.
Senza il Regno Unito, ci sono meno capacità disponibili (anche se rimangono le cooperazioni in ambito NATO), ma cade anche l’alibi dell’opposizione inglese alla Difesa Europea. Il 24 febbraio 2022 è iniziata una maratona che ridefinirà il quadro di sicurezza generale. La scelta è chiara: unirsi o soccombere, scomparendo uno ad uno come 30 piccoli indiani. Pensare l’impensabile alla fine ci salverà.