Con questo studio inauguriamo il ciclo intitolato “Disuguaglianza e Populismo” a cura del think tank Tortuga*. Il ciclo si propone di analizzare la relazione tra variazioni negli indici di disuguaglianza a livello territoriale negli ultimi anni e l’andamento del voto per i partiti populisti. Il primo articolo si occupa degli Stati Uniti mentre seguiranno due studi su Gran Bretagna e Francia.
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Di recente l’amministrazione di Donald Trump ha visto passare il suo centesimo giorno. Attraverso misure drastiche, come ad esempio lo stralcio del TTP, controlli sull’immigrazione più severi e un comportamento molto meno prudente del suo predecessore in politica estera, il neoeletto inquilino della Casa Bianca non ha atteso a far parlare di sé, prendendo sempre più le distanze dall’amministrazione Obama.
Rispetto al giorno del suo insediamento, Trump sta soffrendo, per ora, di livelli di impopolarità senza precedenti, dovuti per buona parte alla sua lentezza nel rispondere alle esigenze del suo elettorato. Tra le numerose problematiche che gravano sulla società americana e che hanno forse contribuito alla vittoria del miliardario newyorkese, uno dei più sottovalutati è quello della disuguaglianza economica. Quasi negli stessi giorni in cui Trump completava il suo primo ingresso nello studio ovale, usciva infatti il rapporto Oxfam 2017 “Un’economia per il 99%”. Questo rapporto aveva aperto un vivace dibattito sullo stato delle disuguaglianze nel mondo e ha offerto dati piuttosto d’effetto (ad esempio il fatto che le otto persone più ricche del pianeta possiedono più ricchezza di tutta di tutta la metà più povera della popolazione mondiale), ponendo nuovamente l’accento sull’influenza esercitata dalle disuguaglianze sociali ed economiche su molteplici altre variabili, non solo economiche.
Certo non si tratta del primo studio che denunci l’innalzarsi dei livelli di disuguaglianza nei paesi Occidentali: senza andare troppo in là nel tempo infatti, agli inizi del 2016, negli Stati Uniti il problema della distribuzione dei redditi si era fatto sentire sin dalle prime battute della campagna elettorale che ha portato alle ultime elezioni. Tant’è che uno dei candidati Democratici, il senatore Bernie Sanders, ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia. La risonanza dell’argomento nel dibattito pubblico èchiaro indicatore della gravità del problema, o quantomeno del fatto che la società americana, nonostante sia abituata a livelli di disuguaglianza ben maggiori di quelli Europei, cominci a percepire un disagio tangibile.
Numerosi studiosi hanno già affrontato il tema della disuguaglianza e delle sue conseguenze politiche. A partire dagli studi dell’economista Tony Atkinson, pioniere in materia, passando dagli studiosi Persson e Tabellini fino al celebre volume “il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty, sono state evidenziate diverse modalità attraverso le quali la disuguaglianza può essere motore di stravolgimenti politici. Ad esempio l’incrinazione della pace sociale, la polarizzazione delle preferenze politiche o il rallentamento della mobilità sociale: la disuguaglianza può essere stata dunque una risorsa (o un impedimento) anche per i candidati delle scorse elezioni presidenziali americane.
La nostra analisi
Data questa premessa, vale dunque la pena chiedersi se Trump stesso non sia riuscito a ricavare un vantaggio dai livelli di disuguaglianza di reddito americani nella sua corsa verso la Casa Bianca. Ebbene, analizzando i dati forniti dall’American Census Bureau, è possibile confermare questa ipotesi: più alti livelli di sperequazione dei redditi sono corrisposti a margini elettorali maggiori per Trump.
Ci siamo focalizzati su quel che è successo negli anni che vanno dall’inizio della crisi del 2008 ad oggi e che combaciano con la durata del mandato di Obama. Nello specifico, abbiamo osservato le contee americane (il secondo livello amministrativo nell’ordinamento USA dopo gli Stati federali) più rilevanti, ossia quelle con almeno 65˙000 abitanti. Per ciascuna di esse abbiamo misurato la variazione percentuale di voti guadagnati da Trump nel 2016 rispetto a quelli vinti dall’allora candidato Repubblicano McCain nelle elezioni del 2008. In seguito abbiamo considerato le variazioni percentuali a livello di contea tra il 2008 e la fine del 2015 dell’indice di Gini, il più diffuso indicatore della disuguaglianza economica[1]. Infine, abbiamo raccolto altri dati relativi ad alcune caratteristiche socioeconomiche delle popolazioni delle contee in esame, quali tasso di disoccupazione, livelli di istruzione e composizione etnica.
I risultati
Abbiamo dunque implementato una regressione lineare, pesando per la popolazione delle contee, usando le variabili socioeconomiche come controlli e tenendo conto degli effetti fissi degli stati. I risultati ci permettono di concludere che l’aumento dei voti a favore del partito repubblicano è stato maggiore nelle contee caratterizzate da un aumento più marcato delle disuguaglianze; in particolare, un aumento di 1 punto percentuale dell’indice di Gini è associato a un aumento di 1.2 punti percentuali della fetta di voti ai repubblicani.
Lo stesso Piketty, uno dei più celebri studiosi in materia di disuguaglianze, nel febbraio del 2016, accoglieva con favore la candidatura di Bernie Sanders, auspicando ad una “nuova era politica” e salutando la rinnovata attenzione degli americani per le questioni redistributive relative alla disuguaglianza economica. Non sapeva ancora, però, che Sanders avrebbe, di lì a qualche mese, abbandonato la corsa per la presidenza e che se si osserva il contenuto delle proposte programmatiche contenute sulla piattaforma online di Trump, futuro vincitore, le parole “inequality” o “redistribution” non figurano nemmeno una volta nel testo dei suoi programmi.
Più che far leva sulle tematiche redistributive, infatti, Donald Trump ha incanalato il risentimento generato da un’accresciuta disuguaglianza e l’ha dirottato contro tre principali obbiettivi: l’establishment (più nello specifico la governance democratica dell’amministrazione Obama), la concorrenza straniera (principalmente di Messicani e Cinesi) e l’influenza negativa degli immigrati sui salari americani. Nel suo discorso di insediamento, tutti questi tre temi sono stati menzionati, mentre Trump non ha mai manifestato intenzione di voler implementare politiche fiscali redistributive (semmai il contrario). Sembra dunque improbabile che il nuovo presidente tenterà di risolvere le disparità nella redistribuzione del reddito in America.
La differenza tra zone rurali e urbane
Esiste un possibile corollario al nostro principale risultato empirico. Infatti, la relazione tra disuguaglianza e risultati elettorali sembra contribuire a dare ragione di un altro fatto emerso con sostenuta evidenza all’indomani dei risultati elettorali, ossia il sistematico conflitto tra campagna e città. Se si osserva il territorio americano distinguendo tra aree metropolitane e non, si può infatti osservare come le zone urbane abbiano generalmente votato a favore di Hillary Clinton, mentre il contrario vale per le zone “rurali”(ossia al di fuori delle aree metropolitane), più di frequente a favore di Trump. Inoltre questa tendenza è in aumento se confrontata con le elezioni del 2008. Se ci basiamo nuovamente sui dati tratti dall’American Community Survey del 2015, risulta che tra il 2008 e il 2015 la disuguaglianza economica è aumentata sia nelle zone metropolitane che nelle zone rurali. Tuttavia, se facciamo interagire i dati relativi ai livelli di disuguaglianza con i tassi di povertà a livello di contea, otteniamo risultati più netti: oltre ad aver registrato un tendenziale aumento dei livelli di disuguaglianza, le contee rurali sono quelle in cui si riscontrano i più alti livelli di povertà, come appare evidente dalle immagini sottostanti. Dunque la combinazione tra crescenti disuguaglianze e povertà maggiormente diffusa può aver avuto un ruolo determinante nel motivare gli elettori delle aree rurali degli Stati Uniti a votare per il candidato anti establishment Donald Trump.
È possibile inoltre che la campagna si sia sentita trascurata rispetto alla città, dove si concentrano le attività più redditizie e i luoghi di potere. Inoltre nelle campagne l’impatto di disfacimento del tessuto sociale dovuto alla deindustrializzazione è avvertito molto più intensamente dalle comunità, più prone dunque ad approvare la retorica dell’”America first”. Tutti questi fattori danno vita ad un vero e proprio fenomeno di rancore verso la città da parte della campagna, o “rural resentment”, come è già stato definito dalla sociologa Katherine Cramer.
[1] L’indice può variare tra 0 e 1 e più è alto più la distribuzione dei redditi è squilibrata; i paesi in cui si registrano i livelli di disuguaglianza più alti presentano un Gini di circa 0,5, (e.g. i paesi del Sud America), mentre i paesi con le distribuzioni più equilibrati si collocano intorno allo 0,3 (e.g. i paesi Scandinavi).
*Tortuga è un think-tank di studenti di Economia sparsi tra Milano, Berlino, Amsterdam, Francoforte e gli Stati Uniti. Nasce nel 2015 e conta attualmente 25 membri. Scrive articoli di economia, politica ed attualità, ed offre alle Istituzioni un supporto professionale ad attività di ricerca o di policy-making.
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